“La politica non è un fine. E’ un mezzo per realizzare un più alto proposito: quello di servire la gente. Ha un solo compito: che sia ragionevole continuare ad avere speranza”. Questa la sintesi del pensiero politico (che meglio ne rappresenta l’idealità) di Benigno Zaccagnini, l’uomo che resse il timone della Democrazia Cristiana nel periodo burrascoso degli “anni di piombo”, quelli del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Correvano gli anni Settanta del secolo scorso. La Dc, con la segreteria di Amintore Fanfani, uno dei cavalli di razza del partito di maggioranza relativa, aveva appena perso il referendum (1974) sulla legge Fortuna-Baslini che aveva introdotto, in Italia, l’istituto del divorzio. Nel 1975 aveva incassato anche una sonora sconfitta alle elezioni amministrative. La dirigenza e la base dei militanti erano in subbuglio. Si invocava, allora, un cambio di direzione che potesse ridare al partito fondato da Alcide De Gasperi, un sostanziale rilancio dell’iniziativa politica, consentendogli di recuperare i voti andati perduti per strada. Erano i tempi in cui i grandi partiti di massa venivano governati democraticamente e le decisioni erano lunghe e sofferte da parte degli organismi statutari che avevano il compito di prenderle. Quelli erano partiti fondati su valori etici e ideologie maturate nel crogiolo della storia dei movimenti politici ricostituitisi dopo la caduta del Fascismo. Fu appunto in una drammatica discussione protrattasi due giorni, che si trovò un punto di mediazione tra le componenti interne che si fronteggiavano democraticamente nello Scudo Crociato. Il nome che rappresentò la sintesi di quell’intesa fu quello di un mite deputato di Ravenna, medico e parlamentare fin dall’Assemblea Costituente, partigiano della brigata Garibaldi, detto “l’onesto”: Benigno Zaccagnini. La sua indole pacifica e riflessiva lo aveva sicuramente agevolato. Non a caso già presidente del Consiglio Nazionale della Dc, un’assemblea formata da oltre cento componenti tra parlamentari, dirigenti centrali e periferici del partito. La sua nomina ai vertici della “Balena bianca” fu come una scintilla che incendiò la paglia asciutta in un granaio, facendo divampare un moto di entusiastico gradimento tra gli iscritti e soprattutto tra i giovani e le donne della Dc. Fu quello il tempo in cui la vecchia classe dirigente – che era in sella da anni – spalancò le porte a una nuova prospettiva, a un profumo di pulizia e di concordia che la lunga gestione del potere, la lotta tra le varie correnti e qualche scandalo, avevano offuscato. Nel successivo congresso nazionale la nomina di Zaccagnini fu confermata e la partecipazione a quella decisione congressuale, fu aperta ai cosiddetti “esterni”, ovvero ai rappresentanti dell’arcipelago delle forze collaterali come il sindacato, e l’associazionismo di riferimento democristiano. Un evento che scalfiva la nomenclatura e irrorava di nuova linfa la Democrazia Cristiana a detrimento dei gruppi di potere cristallizzati nel partito. Una lotta non tra gli interni e gli esterni, ma tra “gli eterni e gli esterni”, come ebbe a dire Mino Martinazzoli che, dopo un ventennio, sarebbe diventato l’ultimo segretario politico della Dc destinata, di lì a poco, a sciogliersi dando il via alla diaspora democristiana. Memorabile fu anche la chiusura di Zaccagnini nel suo intervento di replica al congresso nazionale, allorquando rispose alle critiche di essere troppo mite , in un momento di attacco allo Stato ed alla stessa Dc, da parte dei gruppi armati eversivi: “La mitezza non esclude la fermezza e fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”. Ahimè, come non notare che quei tempi, rapportati a quelli odierni, risultano addirittura eroici, con i contenuti del dibattito improntati a cultura e capacità politica!! Era in quei luoghi e in quei contesti, infatti, che dirigenti e militanti maturavano per il loro futuro. Cosa siano questi sedicenti partiti politici che ci ritroviamo oggi, intestati a persone più che a tradizioni e idee, non è dato sapere né è riconoscibile (o accettabile) da coloro i quali vissero e praticarono quelle straordinarie stagioni politiche. Una in particolare, che, dal dopoguerra fino agli anni Ottanta del ‘900, si caratterizzò per la presenza di una prassi fatta di solidi riferimenti culturali e ideali, regole democratiche di gestione della vita interna dei partiti e un’idea alta e nobile dei fini ultimi dell’agire politico. Un mondo che non trova riscontri ai giorni nostri nella vita pubblica, che neanche può essere cancellato dagli indegni eredi del Terzo Millennio. La gente era partecipe alla vita politica e questa aveva valore e dignità presso gli elettori. Che dovesse materializzarsi, in seguito, l’era dei personalismi, delle satrapie politiche e dei gruppi di famiglia che si spacciano per “forze politiche”, non era immaginabile né ipotizzabile. Tuttavia la lezione che ci viene dal passato non può essere affidata al mendacio di chi intende consegnarla all’oblio, descritta come arcaica pratica dei politicanti di mestiere, men che meno affidarla all’ignoranza di chi pretende di potervi dare seguito. Una testimonianza che dobbiamo a quelli che onestamente la vissero dai quali l’apprendemmo alta e nobile.