L’influencer di guerra

Nel vocabolario del nuovo millennio ci sarebbe bisogno di dedicare uno spazio, e più di una riflessione, al termine “instagrammabile”. Il neologismo ha la sua radice nella popolare piattaforma Instagram, regina dei social per quanto riguarda la condivisione di foto. L’aggettivo, riferito ai soggetti dell’immagine, si può tradurre più o meno così: “Meritevole di essere pubblicato (o condiviso)”.
Chiaramente, un soggetto è instagrammabile non in quanto bello, gradevole o con un potenziale contenuto artistico: il soggetto è instagrammabile se e solo se ha il potenziale di generare interazione o, come dicono gli esperti di marketing, engagement (coinvolgimento). Un video di un gattino puccioso che fa cose tenere è instagrammabile. Una foto che ritrae di spalle una donna in bikini affacciata a una piscina a sfioro che affaccia su Dubai è instagrammabile. Un particolare impiattamento rende instagrammabile un piatto che, altrimenti, potrebbe non esserlo.

Dato per assunto che esiste una nuova categoria di workers, lavoratori, che prende il nome di influencer (che hanno la capacità o aspirano ad avere la capacità di influenzare gli utenti attraverso gli strumenti social), non deve quindi sorprendere che le influencer di moda scelgano addirittura i luoghi dove recarsi per il loro potenziale instagrammabile. Questo dato di fatto è capace di influenzare, quello sì, il turismo. Giuro, ho visto tiktoker (da non confondere con gli influencer perché i tiktoker sono specializzati in video TikTok) pubblicare consigli di viaggio per luoghi instagrammabili. Ho visto in un recente viaggio a Bologna viaggiatori giovani (e meno giovani) chiedere indicazioni per la piccola Venezia (uno dei segreti della Rossa, una piccola finestra in mezzo ai palazzi che dà vista su un canale che scorre tra i palazzi) e non trovare fila alla Torre dell’Asinello (che fotografarla, vi assicuro, è complesso data la prospettiva e anche i vari cavi del tram che distolgono la vista).

Insomma, questo mondo che spesso vedo bistrattato e maltrattato nel mio feed social da persone, anche di una certa cultura e spessore, è in realtà il presente. Probabilmente rappresenterà il futuro. Ma sembra esserci una certa avversione per comprenderne la logica, come lontana da certi schemi e modelli.

Sarebbe molto più semplice, invece, provare a portare degli esempi concreti di come questo modo di comunicare non solo è già in voga ma porta anche a un consenso del 18 percento in termini elettorali (sondaggi di fine febbraio 2022 di IPSOS per Corriere della Sera). Un 18 percento che tra l’altro non sembra assolutamente essere nella frangia giovane dell’elettorato. Parliamo dell’influencer per eccellenza del (trasversalmente) triste scenario politico italiano, Matteo S., che ha deciso di andare al confine con l’Ucraina per portare aiuto  ai rifugiati (in un viaggio durato relativamente poco, quel che basta appunto per scattare qualche foto simbolo). Forse forse, anche perché alla ricerca di una ribalta mediatica da un po’ di tempo scomparsa. Ma non facciamo supposizioni.

Matteo S., quello delle foto dei piatti che mangia e delle magliette di Putin, gioca da anni sull’instagrammabilità. Lo sappiamo tutti: i consulenti assunti, i soldi spesi in comunicazione, la “Bestia” etc.etc. Solo che questa volta non gli è venuta bene. Forse, si potrebbe dire che ha superato un limite, come capita a quelli che a un certo punto in fame chimica di numeri non si rendono conto di essere andati oltre. Come Jayne Rivera che pubblicò la foto della bara del padre con lei in posa in vestitino per commemorarlo.
La figuraccia dell’ex Ministro dell’Interno (ricordiamolo) è talmente grande che non vi è modo di vederla in altra prospettiva. Quello che, invece, chiedo voi è: di cosa vi sorprendete, oggi, se sono anni che un leader politico sembra decidere dove andare in funzione di come apparire, al pari delle influencer che scelgono dove viaggiare in funzione delle foto che si devono fare?

*esperto di comunicazione digitale

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