Paolozzi, Di Maio e Vairetti ‘compagni di squadra’: dialogo su arte, musica, politica e futuro

L’attore, il musicista leader degli Osanna e il professore universitario si raccontano e si confrontano sulla città e sulle anime di generazioni diverse

NAPOLI – Un professore universitario di filosofia, un attore comico, il leader di uno storico gruppo rock progressive e, soprattutto, tre uomini di cultura e di passione. Ernesto Paolozzi, Oscar Di Maio e Lino Vairetti hanno in comune, oltre all’amore per l’arte in tutte le sue forme, una giovinezza passata a giocare a calcio, anzi ‘a pallone’, in viale Raffaello, nel cuore di un Vomero un po’ meno borghese di quello di oggi. Gol, dribbling, litigi e scherzi alle coppiette che occupavano il ‘campo’ appartandosi in auto, poi l’interesse per la politica, inevitabile nella generazione del Sessantotto. In visita alla redazione di ‘Cronache’ i tre dialogano, in un viaggio nel tempo e nei ricordi, regalando un intenso paralello culturale tra la Napoli di allora e quella di oggi.

Correndo dietro al pallone nel cuore del Vomero

Era il professor Paolozzi quello più abile col pallone tra i piedi. “Sì, ma in campo diventava un vero delinquente”, aggiunge sorridendo il fratello minore Oscar Di Maio, tra i più popolari attori napoletani. A quelle partite partecipava anche Vairetti, leader degli Osanna: “Avevo 10 anni. Non suonavo ancora, ma amavo Claudio Villa ed Arturo Testa. Cantavo ‘Io sono il vento’ fino a scocciare chi era con me”, racconta. A quegli infiniti pomeriggi di calcio, da dopo pranzo fino al tramonto, in Vomero ancora in costruzione, hanno partecipato in tanti, a cominciare dai gemelli Ruotolo, uno dei quali, Sandro, oggi è senatore della Repubblica, fino ad Antonio Scaturchio, della famiglia di pasticcieri napoletani. Ernesto Paolozzi e Oscar Di Maio già allora, tra un gol e una parata (“mi scansavo quando mi mandavano in porta. Così ero sicuro che non mi ci facevano andare più”, racconta il comico), seguivano i loro interessi per la cultura e per il teatro guidati dallo zio Gaetano Di Maio, indimenticato commediografo e poeta. Vairetti, invece, cominciava a suonare e a creare i primi gruppi, passando dalle cover dei grandi degli anni Sessanta, al rock progressive, che allora veniva ancora chiamato pop. “Fino al Festival di Caracalla, il momento in cui per me è arrivato il successo. Quarantamila persone sorprese dalle maschere e dal saio che indossavamo, dalla nostra musica, e dall’inno sovietico che il nostro chitarrista Danilo Rustici volle suonare nonostante le idee politiche diverse da quelle del nostro sassofonista Elio D’Anna”.

La musica e l’arte di ieri, di oggi e di domani

La musica, oltre ovviamente al calcio, ha unito sin dall’inizio Paolozzi, Di Maio e Vairetti. “Rinnegavamo quella napoletana tradizionale – spiega il professor Paolozzi – sbagliando di grosso. Inseguivamo la modernità, in tutti i campi. Sottovalutavamo Sergio Bruni che è stato uno dei più grandi artisti partenopei, ma anche Salvatore Di Giacomo o Benedetto Croce. Volevamo demolire. Non avevamo capito niente. Se non ci fosse stata la nostra generazione, che ha fatto un’operazione cartesiana ricominciando da zero, però, il mondo oggi non avrebbe fatto fondamentali passi in avanti in tanti campi, a cominciare dai diritti civili. In quegli anni di grandi contrapposizioni, in ogni caso, non c’era cupezza. Eravamo felici, assolutamente. Spero oggi possa tornare un movimento un po’ eversivo che riesca a restituire ai giovani la passione”. Felicità, intensità, attenzione alla sostanza invece che all’apparenza. Elementi che nel 2020 sembrano mancare. “Regna sovrano il finto moralismo – aggiunge Di Maio – e il pubblico vuole immediatezza. Personalmente ho preferito restare me stesso, con la mia comicità, senza ad adattarmi a modelli che non mi piacciono e non mi rappresentano. Per fortuna c’è il teatro, che ha un pubblico variegato che, nel caso dei miei spettacoli, vuole semplicemente divertirsi un po’”.

La generazione romantica: “Meglio essere Picasso che accumulare denaro”

I tre, nei rispettivi campi, hanno realizzato i loro sogni coltivando passione e talento. “Volevamo essere Foscolo o Picasso, i soldi venivano dopo. La nostra era una generazione romantica, al di là delle idee politiche”. “Gli ideali venivano prima. Anche da grande ho continuato a ritenere il denaro meno importante rispetto al fare arte, rispettando la mia visione della stessa”. “La mia famiglia era povera, ma non ne ho mai sofferto. I miei genitori avevano una dolcezza straordinaria, un’immensa passione per l’arte, sono cresciuto per dare loro le soddisfazioni che meritavano. Amore, tantissimo lavoro e un pizzico di fortuna mi hanno portato ai successi che ho raccolto nel corso degli anni. Il pensiero creativo rende davvero felici, non i soldi”. Così la pensano rispettivamente Paolozzi, Di Maio e Vairetti. Tre napoletani di successo che indicano una strada verso la felicità alle nuove generazioni. E che ancora non sanno dire di no all’invito a giocare una partita di pallone.

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