‘O’ P’nneon’: la festa dei pescatori di Pozzuoli nel documentario di Mauro Di Rosa (intervista al regista)

NAPOLI – Cosa significa sfidare la forza di gravità su un palo di legno sospeso sul mare, inclinato di 45 gradi e reso scivoloso dal grasso animale, per agguantare le tre bandierine poste all’estremità? La tradizione del Pennone a Mare, a Pozzuoli, affonda le sue radici nel 1600: la festa popolare legata alla devozione dei pescatori per la Madonna Assunta si rinnova ogni anno a Ferragosto al Molo Caligoliano, in un clima di suggestione e goliardia che ha attirato l’attenzione di Mauro Di Rosa. Trentasei anni, napoletano di Giugliano, autore, attore e regista, con il documentario ‘O P’nneon (trascrizione fonetica del dialetto puteolano) ha voluto raccontare una storia antica ma sempre nuova, metafora della vita e di chi la sfida, acrobata su un mare a volte calmo, a volte agitato, a volte in tempesta.

Mauro Di Rosa
Lo scrivi in apertura di documentario: ‘O P’nneon’ “nasce da una curiosità di Mauro Di Rosa”. Come, quando e perché è nata la voglia di conoscere quest’antica tradizione puteolana?

In verità la conoscevo da tempo. Frequento il territorio flegreo da quasi due decenni, ne avevo sentito parlare, ma non ero mai riuscito a vederla di persona. Un paio di anni fa insieme al mio gruppo di lavoro (Cantiere Teatrale Flegreo/En Art) ero impegnato in una ricerca sulle tradizioni e le memorie puteolane, che da lì a poco sarebbe diventato un testo teatrale (“Soul Pezzul” di Pako Ioffredo), e fu lì che mi resi conto che sulla tradizione del “Pennone”, a parte qualche nozione informativa del tipo quando si fa, dove si fa e in cosa consiste, non c’era nient’altro. Io che ho fatto studi antropologici so bene che un’usanza popolare ha provenienze ed evoluzioni molto più ampie e profonde del semplice “dove e quando”. Questo, legato alla mia passione per il cinema, ha fatto sì che la scintilla si accendesse. Ecco il motivo della scelta “…da una curiosità” e non di “Regia”. La regia prevede una preparazione, uno studio, una pianificazione, delle scelte. In questo caso tutto ciò non è avvenuto. Ho voluto evitare anche qualsiasi informazione che riguardasse ciò che stavo andando a riprendere. Evitare assolutamente ogni pregiudizio, ogni prevenzione. Volevo essere totalmente neutrale, essere sorpreso continuamente e volevo che questo sentimento di sorpresa e di scoperta si rovesciasse di conseguenza anche alla macchina da presa. In questo modo ho provato a dare vita ad una realtà che fosse vissuta attraverso uno solo stato d’anima, ma percepito da due punti di vista completamente diversi: quello umano e quello cinematografico.

Hai usato, nel tuo lavoro, sia il bianco e il nero che il colore, e non solo per definire le immagini di repertorio. Qual è stata la discriminante applicata e che ‘filtro’ hanno le tue lenti preferite?

Non volevo che questo lavoro diventasse un documentario antropologico meramente informativo. Al di là delle storie narrate, volevo che la vera voce narrante fosse il cinema e il suo linguaggio. Volevo che lo spettatore vivesse “l’evento” attraverso un flusso di immagini, di situazioni, di accadimenti, e non attraverso i racconti. La doppia scelta cromatica ha fatto sì che la storia si sviluppasse su due piani paralleli, che diventano contingenti di tanto in tanto, ma mai dipendenti l’uno dall’altro. Quindi se da un lato vediamo le talkin heads a colori – realtà oggettiva, in bianco e nero viviamo il film della giornata (15 Agosto, giorno della Madonna Assunta) – realtà soggettiva. In questo modo il giorno dell’evento lo si vive quasi in maniera onirica. Le mie lenti hanno “filtri” che si soffermano molto sui contesti che scelgo di filmare. Credo che un luogo riesca a parlarti in maniera molto più diretta e rapida dei soggetti che lo vivono. Spesso un luogo riesce a condizionare in maniera tale un modus vivendi che le persone ne portano i segni sul viso, negli sguardi, nei modi di vestire, di parlare. I pescatori filmati ne “’O P’nneon”, che vediamo impegnati per tutto il tempo nella preparazione dell’evento, non hanno deciso di caricarsi sulle spalle solo il peso di una tradizione, ma anche il fardello della responsabilità di coloro che sono tenuti a tramandare una tradizione, in quanto ultimi testimoni di una rocca abbandonata (Rione Terra) che svetta per tutto la durata del film alle loro spalle come un involucro vuoto.

Ci racconti un aneddoto simpatico legato alla realizzazione del documentario?

Siamo stati veramente pochissimo tempo sul campo per effettuare le riprese, quindi non ho avuto molte possibilità di condividere situazioni con la comunità dei pescatori. Però posso dirti che quando siamo arrivati (con Paolo Visone, seconda macchina da presa), a parte uno dei protagonisti che si prestò subito a farsi intervistare, tutti furono molto restii a farsi filmare. Anzi, si tenevano a distanza, ci guardavano con sospetto, di nascosto. Questo fino al pomeriggio prima dell’inizio della gara. Usciti dalla chiesa, dopo la benedizione dei concorrenti, mi sono ritrovato praticamente assalito da tutta la comunità. Volevano parlare, raccontare, esprimersi. Ci fermammo per circa un’ora e fu divertentissimo, oltre che importante dal punto di vista del racconto.

In questo lavoro c’è la gente del posto, ma tu, sulla scena dal 2001, hai lavorato anche con attori professionisti. Quali le difficoltà e quale la bellezza del condividere il set o il palco con l’una e l’altra categoria?

Naturalmente si discute di due opposti che riescono a donarti difficoltà e bellezze completamente differenti. Nel caso specifico del documentario, e quindi del lavoro con persone che provengono da ambiti diversi dal mio, la difficoltà più grande sta nel farli parlare e guidarli piano piano verso la strada che vuoi che prendano. Anche se poi ripensandoci, giusto per farci una risata, la difficoltà più grande sta nel far capire che c’è un obiettivo che delimita un campo di ripresa e che dovrebbero muoversi molto poco, ma è una difficoltà alla quale non farei mai a meno. La bellezza, invece, sta sia nella verità che riescono lentamente ad esprimere attraverso una spontaneità senza filtri, sia nel senso di riverenza e di rispetto che nutrono nei confronti della macchina da presa. Loro non hanno concezione della macchina da presa in quanto mezzo meccanico, per loro ha più le sembianze di un confessionale di un reality e quando riescono ad aprirsi seriamente, noti che parlano all’obiettivo come se stessero confessando qualcosa a loro stessi. Lavorare con professionisti ti consente di indirizzare il lavoro in maniera totalmente differente. Lo studio, l’approfondimento e la scoperta che questi ti permettono di attuare attraverso il loro corpo, la loro voce, e in molti casi, la loro anima, ti consente di trasportare il lavoro da un livello che io definisco narrante, a livelli molto più profondi, come quelli simbolici e metaforici. Ti permette di lavorare sulle sfumature, che per me sono il luogo vero della “scoperta”, ti permette di sfondare nel vero senso della parola quello che è il muro della tua visione e arricchirla con quella degli altri. La difficoltà, spesso, sta nel sopportarli (ride, ndr).

O P’nneon è basato su una tradizione e le tradizioni, si sa, sono intoccabili. Dal successo delle ultime proiezioni, ultima quella al Napoli Film Festival, pare che l’esperimento sia riuscito. Può essere il primo di una serie, dal momento che ogni angolo della Campania offre spunti così simili e così diversi, o preferisci ‘creare’ da te?

Non mi basta avere un “evento”, ho bisogno di avere una necessità e per esprimerla l’arte ti mette a disposizione un’infinità di generi, modi e stili. Non ho filmato la festività della Madonna Assunta di Pozzuoli per il solo gusto di raccontare una festa popolare. L’ho fatto perché esista una testimonianza tangibile. L’ho fatto per dare a queste persone una voce, un volto. L’ho fatto perché non diventino vuoti come quella Rocca che incombe da quarant’anni sulle loro teste. L’ho fatto perché spero resti utile alle generazioni future affinché le tradizioni vengano continuamente tramandate. Io non so mai quale sarà il mezzo attraverso il quale mi esprimerò. L’anno scorso, per esempio, ho scritto un testo teatrale che parla del lavoro (Ore3zero5). Non so, quindi, se il mio prossimo lavoro sarà un documentario o un film di fiction, sicuramente sarà qualcosa di cui avrò una forte necessità di parlarne.

C’è un chiaro messaggio ‘sociologico’ dietro la tradizione del Pennone. Vittoria, riscatto magari, ma dopo un percorso. Camminare, non necessariamente dritti, ma assecondare le curve del legno, per arrivare a prendere le tre bandierine all’estremità. Quali sono le tue tre bandierine?

Il rischio di essere banale nel rispondere a questa domanda è molto alto. Ho imparato che le bandierine che pianti e che intendi raggiungere spesso il vento te le abbatte. E allora sei costretto a rialzarle, riprendere la corsa e mentre sei impegnato a rimettere su le bandierine che hai davanti, ti rendi conto che dietro di bandierine piantate ne restano molto poche. Allora ho imparato a dare molta più importanza alle bandierine che si lasciano sul percorso della vita, i punti fermi, e riguardando quelle, piantare poi una bandierina alla volta. Anche perché devi tener conto che il legno potrebbe spezzarsi, soprattutto se fai tanti buchi per mettere tante bandierine (gesto scaramantico). Allora preferisco metterle una alla volta. Dal punto di vista professionale ho una bella bandierina piantata. Oltre a vari piccoli progetti, sto scrivendo la sceneggiatura di un lungometraggio che tenta l’ardua strada di donare una storia, e quindi una dignità, ad un luogo che sembra non averne.

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