Mercoledì sera ero a casa. Accanto a me la mia famiglia. Dopo tre giorni di festa trascorsi con le persone care, eravamo tutti davanti al televisore per vivere una serena serata di sport. La sfida è di quelle importanti: Napoli e Inter si giocano il secondo posto in campionato, chi vince resta in corsa per la vittoria del titolo finale. Settimane di attesa e finalmente si comincia. Vivremo una bella esperienza. Ma poi accade quello che non avremmo mai voluto vedere, quello per cui ti vergogni di vivere in un Paese in cui da troppo tempo si dà sfogo agli istinti più bassi e neri dell’anima. Fin dalle prime battute del match è possibile udire chiaramente, proveniente dalla curva interista, il solito vergognoso coro offensivo nei confronti dei tifosi napoletani. Troppe volte lo hai sentito, al punto che dentro di te sale una forte rabbia mista ad indignazione. Cerchi disperatamente di convincerti che sono pochi imbecilli eppure ti rendi conto quasi istantaneamente che a produrre quei cori è un intero settore. Che quei cori sono espressione di un modo di intendere lo sport ed il calcio che non è più tollerabile. E sono figli di una cultura sassaiola e violenta che insegna ai ragazzi, fin dalla tenera età, che il calcio non è bellezza e armonia, ma muscoli e prevaricazione. Eppure tu non sei lì, sei a casa, tranquillo tra i tuoi affetti, su una poltrona, se non ti piace puoi cambiare canale. Solo a quel punto ti rendi conto che chi è allo stadio è incastrato ed è costretto ad ascoltare quello schifo per 90 minuti. E così quando vedi che mano mano i cori si concentrano su un solo giocatore che ha l’unica colpa di essere un fuoriclasse di pelle nera, la tua rabbia giunge al culmine. Nell’applauso rivolto all’arbitro, allo stadio che per un’ora e mezza ha insultato te, la tua storia, la tua famiglia, il colore della tua pelle, la tua terra, vedi un segno di ribellione. Finalmente. Un uomo che ha il coraggio di dire “basta”.
Quel coraggio che finora sembra mancare agli arbitri in campo, alla federazione sportiva, agli allenatori, ai compagni di squadra, agli avversari, persino a noi che siamo a casa. E allora quel gesto non puoi condannarlo, anzi lo apprezzi. Ti dà la forza di combattere per quello in cui credi. Sulla tastiera di un pc, davanti a uno sportello aperto al pubblico, su un tram, su un cantiere stradale in queste ore ci sono tanti Koulibaly che hanno voglia di reagire. Non disperdiamola questa energia. Coinvolgiamo le famiglie e le scuole. Responabilizziamo la politica. Smettiamo di tollerare, di frenare la nostra indignazione in nome del quieto vivere e della paura.
Battiamo le mani di fronte ai capetti dell’intolleranza e della maleducazione. Battiamo le mani contro le ingiustizie. Facciamo il nostro applauso personale a chi rimane indifferente e diventa complice. Il Comune di Napoli con Difendi la Città-Stadio, attraverso un osservatorio contro ogni tipo di manifestazione discriminatoria negli stadi, ha deciso da che parte stare.
Ma ognuno faccia la sua parte. Durante una partita vigliacca un senegalese napoletano ha avuto il coraggio di non chinare la testa. Quel gesto è un monito e una testimonianza. Non dimentichiamocene. Altrimenti perdiamo tutti. Perde la dignità. Perde la storia. Quella che racconta che siamo briganti. Che siamo le Quattro Giornate. E da mercoledì anche Kalidou Koulibaly.
*Delegata comunale di ‘Napoli città autonoma’