Scuola e più fiducia nella libertà

Il professor Ernesto Paolozzi

NAPOLI – Diciamo la verità, nessuno se lo aspettava che la scuola italiana riuscisse in pochi gironi a digitalizzarsi, ad avviare con successo la didattica a distanza. Nell’immaginario collettivo i docenti italiani erano assimilati ai fannulloni, ai famigerati statali che rubano lo stipendio, scaldano la sedia, fanno tre mesi di vacanze e altre simili sciocchezze messe in giro da protettori degli evasori fiscali e avventurieri vari che volevano tutte per loro le risorse provenienti da chi le tasse le paga. Un’egemonia politica nata nelle stanze di una destra di tipo nuova, non assimilabile né alla destra liberale né a quella sociale, un’egemonia che presto si è estesa alla sinistra cosiddetta riformista, ai pentiti del comunismo divenuti liberali immaginari.
Certo, un’egemonia politica si costruisce sempre assieme ad un’egemonia culturale che la legittima. E, dunque, citazioni di Einaudi e von Hayek avulse dal contesto storico, isolate dal complesso pensiero di quegli autori, a giustificare l’attacco alla sanità e alla scuola pubbliche. Lo Stato invadente se non oppressivo, inefficiente e lento. Privato è bello, dunque, meglio se piccolo, ancora più bello. Eppure in quegli stessi anni i liberali più consapevoli rilanciavano lo slogan: “Più Stato dove si deve, meno Stato dove si può”. Tutto sommato una regola di buon senso. E, allora, chi si aspettava che professori mal pagati, frustrati socialmente, oppressi da genitori invadenti, arroganti e, il più delle volte, ignoranti (in senso etimologico) di cose di scuola, si dedicassero anima e corpo (almeno nella stragrande maggioranza) ad imparare un nuovo modello di insegnamento, a “modernizzarsi”, a connettersi con gli alunni in un momento così difficile. Detto questo, non cediamo alla retorica del sono eroi. No, non vi è dubbio che gli insegnati devono migliorarsi, che non tutti sono all’altezza del compito e così via. Ma intanto si va avanti e si impara rapidamente come sempre nelle crisi. Si scopre, ad esempio, che gli alunni più timidi si giovano della didattica a distanza liberandosi dall’incubo di essere bullizzati. D’altro canto ci si rinforza nell’idea che non si può fare a meno della socialità, della scuola come comunità e, dunque, che per il futuro si dovrà trovare il modo di far convivere le due didattiche.
Credo che si capirà sempre meglio che la formazione, l’educazione, si fondano sulla complessità per cui, ci si augura, si abbandonino gli eccessi nozionistici fondati sulle prove a quiz e sulle valutazioni astratte. Sarebbe un gran passo verso la modernità autentica, quella che si fonda sul recupero della vita, della storia, della fantasia, dell’intelligenza, della libertà. Il docente conosce la storia, come dire la vita concreta, di uno studente, il quiz mutila e immeschinisce le capacità individuali. Ecco una battaglia autenticamente liberale e, intrinsecamente, sociale. Meno carte, riunioni inutili, burocrazia asfissiante e più libertà agli insegnati e agli alunni di scegliersi le modalità di insegnamento e i contenuti appropriati secondo il dettame costituzionale del libero insegnamento in un contesto di valori condivisi. Speriamo che si colga l’opportunità della didattica a distanza, la si regolamenti, certo, ma non troppo. Si abbia un po’ di fiducia nella libertà e nella responsabilità individuale.

*Docente di Storia della filosofia

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