“So di non sapere”. Il paradosso socratico è stato elaborato dal filosofo oltre 400 anni prima della nascita di Cristo, l’anno zero. Sono passati, quindi, oltre 2420 anni da quando la massima è stata pronunciata la prima volta e ancora oggi, nell’era della conoscenza e del digitale in cui solo apparentemente lo scibile umano è quasi tutto a portata di pochi tap sullo smartphone, la gente continua a parlare a “schiovere” (per utilizzare altri famosi modi di dire in slang di lontanissima origine greca).
Di che parliamo? Di tutto, potenzialmente, ma riferiamoci un secondo a quanto letto su Ischia nelle nostre nuvolette social. Di fronte alla tragedia che ha colpito Casamicciola in tanti avevano la loro verità in tasca. Lecito: avere idee, opinioni e anche pregiudizi è tipicamente umano. Ma nessuno si è preso la briga – prima di parlare – di capire: cosa è accaduto? Quali responsabilità? Perché la terra è diventata valanga di fango portando con sé vite, anche innocenti? Tanti bravi colleghi hanno provato a ricostruire quanto accaduto, ma sono sempre un numero esiguo rispetto alla facilità con la quale si può pontificare, anche sul nulla.
Ok, mi direte, la pancia si contorce e quindi di pancia si ragiona davanti a una frana che racconta storie già viste, anche recentemente, anche così vicino a noi. Va bene, allora facciamo così: parliamo di un’altra cosa andata virale (tanto è facile, basta tappare due volte e siamo anche noi solidali) che è quella dei giocatori dell’Iran che non cantano l’inno nazionale ai mondiali per protestare contro il regime di Raisi. Applausi scroscianti e mani spellate per il coraggioso gesto, sia chiaro, salvo poi ascoltare le parole di un’attivista iraniana raggiunta dai ragazzi della Scuola di Giornalismo di Napoli che serafica sostiene: “Non cantare l’inno ai Mondiali non basta. Quei calciatori non sono eroi”. E aggiunge, dopo aver raccontato di quante volte è stata fermata nel suo Paese: “Quei calciatori, prima di partire per Doha, sono stati ospitati da Khamenei e hanno incontrato il presidente Ebrahim Raisi. Con loro hanno scattato foto, da loro hanno ricevuto regali, diventando oggetto di tanta pubblicità per la stabilità del paese contro le proteste”.
Non una sconfessione del gesto di protesta, quindi, ma queste parole hanno aperto in me una complessità della situazione iraniana ben lontana da quanto possa un video virale sintetizzare. In fondo, ma quanti di quelli che hanno applaudito ai calciatori al mondiale Qatariota invece profondamente stigmatizzato hanno reali conoscenze di Iran, di Medio Oriente o di Islam?
La facilità con cui è possibile condividere un’opinione velocemente col mondo è paradossalmente paritetica all’autorevolezza della stessa. L’autorevolezza è, da 2420 anni e oltre, sempre frutto della conoscenza. Mostri come la ricerca della viralità o le storie strappalike di personaggi in cerca di ritorno sono invece appannaggio di una società che si sta appiattendo su un dibattito banale fatto di stimoli immediati e un consumo fast dei fatti. Un lusso di mediocrità che non possiamo permetterci più e a cui l’unico argine che possiamo porre è noi stessi. Fermarsi e ricordare che spesso, anzi sempre, sappiamo di non sapere. E postare di conseguenza.
*esperto di comunicazione digitale
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