Tigri di cartapesta

Vincenzo D'Anna, ex parlamentare

È un vero peccato che in Italia, terra di eccelsi polemisti e di intellettuali controcorrente, abbia prevalso il conformismo (e l’appiattimento) dell’informazione. Un tempo l’opinione pubblica si andava formando attraverso gli editoriali dei grandi giornalisti, i libri e le testimonianze degli intellettuali, sia quelli organici ai partiti, sia quelli indipendenti, i cosiddetti “irregolari”. Ciascuno, a modo suo, raccontava uno spaccato della società con gli strumenti che gli erano più congeniali: una macchina per scrivere, una penna, una telecamera, una cinepresa, a volta finanche un pennello per dipingere un quadro (se questi era nelle mani di un artista come Renato Guttuso). Troppo poco, in questa sede, lo spazio disponibile per elencare i nomi ed i contributi culturali che ciascuno di questi “grandi” ha dato, nella seconda metà del secolo scorso, perché l’Italia potesse stare al passo delle grandi democrazie europee. Non fu certo un nuovo Rinascimento ma sicuramente segnò la rinascita per un popolo ed una Nazione usciti distrutti dalla guerra e narcotizzati dal ventennio fascista. Oggi, invece, vige e vince la velocità dei media, che riduce a semplice e sommaria notizia qualunque evento, a prescindere dalla sua rilevanza. Un fenomeno che ha finito col trasformare finanche il linguaggio e le modalità di comunicazione tra gli essere umani ridotti (ed uniformati) a meri contatti elettrici chiamati “amici”. Senza questa premessa non si capirebbe come sia stata, via via, svuotata e banalizzata l’informazione ed il processo di formazione dell’opinione pubblica, di converso, quella politica. E’ da questo che viene fuori la grande menzogna di attribuire a determinati partiti politici vittorie elettorali che non ci sono, sopravvalutandone le dimensioni ed i significati. Guardiamo al voto di domenica scorsa. Gli astenuti sono stati intorno al 45%. In pratica, circa un elettore su due non si è recato alle urne. Prediamo il Pd accreditato con un netto recupero dei consensi rispetto alle politiche del 2018, ma che invece, con l’odierna astensione, prende ancor meno voti (un centinaio di migliaia) rispetto ad allora. Lo stesso discorso vale per Salvini che pure canta vittoria e mena vanto di un 34% ma che a conti fatti, tenendo presente la quota degli elettori aventi diritto, è sì e no sotto il 20%. E il M5S? Be’, i pentastellati sono scivolati addirittura sotto la soglia del 10% se commisurati al numero totale dei potenziali votanti. E così, di fila, per tutti quanti gli altri partiti. Insomma: ci troviamo innanzi a minoranze scarsamente rappresentative della volontà complessiva e concreta della Nazione. Ora, poiché i voti si contano ma non si pesano, mi astengo dal dire che buona parte dei ceti sociali più avveduti ancora si astengono e si estraniano dal mettere le loro energie nel motore del corpo elettorale. Ma questo nessuno lo dice. Né i sondaggisti, né i giornalisti. Non lo dicono le tv, né lo rivelano gli anchorman delle reti televisive. La democrazia certo procede e non aspetta gli assenti che, secondo la vulgata, hanno sempre torto. Ma che dire se poi, essa stessa, arriva a privarsi di circa la metà del corpo elettorale, dei talenti e delle opinioni di decine di milioni di cittadini? E perché allora non porsi queste domande e valutare gli esiti delle elezioni per quelli che realmente sono stati sulla scorta della partecipazione alle urne? Perché non aprire una grande riflessione, un grande dibattito per arginare la deriva astensionista in Italia? Un quesito su tutti: il moralismo giustizialista, l’ingerenza della magistratura, incolpevole ed irresponsabile sempre e comunque dei propri errori, hanno moralizzato oppure desertificato e deprivato la vita politica? E ancora: quanti sono i benpensanti che non intendono rischiare la gogna se entrano in politica? Sono risposte serie, che non possono essere affidate al ruggito delle tigri di carta che oggi vanno per la maggiore.

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