Una donna al Quirinale: i tempi sono (im)maturi

Una donna al Quirinale. La richiesta–spot è talmente banale che assume i contorni dell’ovvietà: dopo tanti anni di uomini delle Istituzioni a rappresentare l’Istituzione, sarebbe anche ora che sia una Donna a diventare Capo dello Stato e primo simbolo di unità nazionale. Sebbene l’ala più all’avanguardia della popolazione abbia già superato abbondantemente l’identità di genere binaria a favore di una più trasversale definizione dell’io che comprende concetti come la non-binarietà, agender, pangender e altre sfumature, prendiamo per buona questa visione dal sapore retrò in cui esistono i maschietti e le femminucce, e i maschietti vengono da Marte e le donne da Venere. Certo, inutile sprecare similitudini con altri casi in Europa come quello della cancelliera tedesca Angela Merkel: il Presidente della Repubblica non è a capo di un Esecutivo che gode della fiducia di Camere composte da rappresentanti eletti dal popolo. Ma ci sarebbero comunque dozzine di buoni motivi per cui una donna al Quirinale sarebbe un ottimo segnale per l’intero Paese. Un Paese in cui le cronache sono ancora zeppe di femminicidi e in cui il gender gap lavorativo (e retributivo) è tra i peggiori d’Europa potrebbe trovare solo giovamento in una figura femminile forte come Garante della Costituzione. In Italia – dove evidentemente amiamo le petizioni – si festeggiano invece duemila (duemila) firme (in Italia siamo circa 64 milioni, mi preme ricordarlo) digitali (e già ne abbiamo parlato proprio su queste pagine) per chiedere una Presidente della Repubblica donna. No, non parliamo della cordata che parte da Michela Murgia e finisce a Fiorella Mannoia passando per Serena Dandini, Luciana Litizzetto, Sabina Guzzanti e tante altre che pure chiedono una Presidente donna sprecando paragoni con Germania, Svezia e altri Paesi dove – come già fatto notare prima – si parla di elette o comunque di indicazioni del popolo alle urne e non di nomine derivanti da attuali equilibri politici siglate perlopiù nelle stanze dei bottoni di Roma. Parliamo invece dell’Aidda – Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda – che in questo sprecarsi di voci a favore dell’ovvio esordisce così: “Siamo convinte che questo Paese abbia bisogno della sensibilità e delle peculiarità delle donne”. E aggiunge: “Per affrontare le sfide che il futuro ci presenta c’è bisogno di valori femminili, è quindi l’ora che la politica, le categorie, le associazioni, gli enti sociali ed economici ne prendano consapevolezza e si organizzino di conseguenza valorizzando le loro risorse al femminile”. Quindi, nel cercare di ridurre il gender gap e le (ancora reali) disparità tra uomo e donna dovremmo scegliere un Presidente della Repubblica donna perché “sensibile”. O perché le donne abbiano determinate “peculiarità”. E “valori femminili” (che evidentemente differiscono dai “valori maschili” ma per cosa non è dato sapere). Nel tentativo di fare un salto avanti, un gruppo di manager e imprenditrici non si rende conto di fare tre salti indietro. A quando lo slogan: “Vogliamo un Presidente donna perché angelo del focolare domestico”? O puntare sull’abilità in cucina o con ago e cotone? Avremmo una Presidente contraria alle guerre perché le donne sono prima di tutto madri? O sostituiremo il proverbiale “Chi dice donna dice danno” con “Chi dice Presidente dice danno”? I valori di una persona, qualunque ruolo essa svolga, nel 2022 non possono in alcun modo essere evinti dall’identità di genere della stessa e da inutili e datati stereotipi (positivi o negativi che siano). Stesso discorso vale per il Presidente della Repubblica, per la cui nomina non esistono doti prerogative di un determinato sesso atte a orientare una scelta. Sia una donna il nuovo Presidente della Repubblica, certo. Ma per motivi validi..

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