AVERSA – Era riuscito a individuare e tracciare chi commerciava stupefacenti, sfruttando il porto di Acciaroli, e sporcava la sua bellissima terra cilentana. Questa era la “colpa” di Angelo Vassallo: aveva deciso di fare il sindaco fino in fondo. Come? Tutelando in prima persona il suo territorio. Ma il prodigarsi per la legalità cozzava con gli interessi criminali di un’organizzazione pericolosa e senza scrupoli. Risultato? Angelo Vassallo, fascia tricolore di Pollica, comune della provincia di Salerno, venne ucciso il 5 settembre 2010: tra le 21:10 e le 21:12, mentre era in auto, fu raggiunto da nove colpi d’arma da fuoco.
A distanza di 14 anni da quella tragedia, le persone che, con ruoli diversi, avrebbero reso possibile l’assassinio del sindaco sono state ammanettate. Quattro gli indagati che, su ordine del giudice Annamaria Ferraiolo del Tribunale di Salerno, sono finiti in manette con l’accusa di omicidio aggravato dall’aver agevolato il clan Cesarano. Chi sono? Fabio Cagnazzo, 54enne, colonnello dei carabinieri, al tempo dell’assassinio in servizio presso la compagnia di Castello di Cisterna; Lazzaro Cioffi, 62enne di Casagiove ma trapiantato a Maddaloni, ex brigadiere dell’Arma (in servizio, all’epoca, presso la stessa compagnia dove operava Cagnazzo); l’imprenditore Giuseppe Cipriano, 66enne di Pompei, con affari a Scafati, detto ‘Peppe Odeon’; e Romolo Ridosso, 63enne, ritenuto esponente del clan camorristico Ridosso-Loreto e ora collaboratore di giustizia.
Cosa c’entrerebbe Cagnazzo con l’assassinio del sindaco? La Direzione distrettuale antimafia della Procura di Salerno, seguendo le indagini condotte dai militari del Ros, ipotizza che l’ufficiale aversano si impegnò per depistare le indagini che gli inquirenti stavano conducendo per fare luce sul delitto del ‘sindaco pescatore’. L’allora ufficiale della compagnia di Castello di Cisterna avrebbe agito per indurre la Procura a collegare l’assassinio all’alterco di Vassallo con Bruno Humberto Damiani, italo-brasiliano, e con Roberto Vassallo, titolare di un albergo del luogo, per questioni legate allo spaccio di stupefacenti. Cagnazzo, secondo quanto emerso dagli accertamenti del Ros, dopo l’omicidio del sindaco, si sarebbe adoperato per diffondere false notizie circa il coinvolgimento di Damiani, sostenendo che fosse positivo all’esame dello stub.
Damiani, affermava falsamente l’ufficiale (ora detenuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere), si era anche occupato di pedinare la vittima nei pressi del porto di Acciaroli. L’italo-brasiliano era uscito da poco di prigione e, stando all’impianto che Cagnazzo avrebbe voluto far passare, aveva ripreso a spacciare in paese. Ma Vassallo, che voleva ostacolare lo spaccio, iniziò a fare delle ronde nella zona porto osteggiando gli intenti di Damiani. Insomma, il movente era stato costruito. Un’altra ‘fake news’ che il carabiniere, sempre secondo gli inquirenti, diffuse all’epoca era quella dell’esistenza di un vero e proprio “gruppo Damiani” dedito al traffico di droga con base ad Acciaroli, veicolata attraverso un gommone.
Per gli inquirenti, questo depistaggio si sarebbe concretizzato redigendo e facendo redigere false annotazioni di servizio. In una di loro, basandosi su alcune immagini riprese dal circuito di videosorveglianza in zona porto, Cagnazzo sosteneva che Damiani gironzolasse intorno a Vassallo con altre due persone, come se stessero agendo da ‘specchiettisti’ poco prima dell’agguato. Ma c’erano altri video che scagionavano Damiani, poiché situato in un’altra zona al momento dell’assassinio, che l’ufficiale non menzionò.
Cagnazzo sarebbe arrivato anche ad aggredire un cittadino che aveva dichiarato all’autorità giudiziaria l’intenzione del sindaco di denunciare il traffico di droga che caratterizzava Acciaroli, gestito proprio da Cagnazzo e Palladino.
Vassallo – questa la tesi della Procura – sapeva effettivamente che la droga raggiungeva la cittadina cilentana via mare, trasportata da barche che attraccavano nel porto, per poi essere stoccata in un deposito. Dal 20 agosto, quindi, aveva iniziato a pattugliare il molo e controllare i gestori dei locali della movida acciarolese, arrivando a prospettare chiusure e limitazioni delle attività commerciali. Il sindaco, pur avendo manifestato timore per la propria incolumità, aveva contattato il procuratore di Vallo della Lucania Alfredo Greco e il comandante della stazione dei carabinieri di Agropoli Raffaele Annichiarico, ai quali avrebbe dovuto riferire i fatti. Insomma, il traffico di droga c’era, ma a curarlo, riteneva il sindaco, non era affatto Damiani, come, secondo la Procura, voleva far credere Cagnazzo, bensì altri soggetti (per i quali la Procura ha deciso di procedere separatamente). Chi? Giovanni Caiero, Pasquale Garofalo, Raffaele Maurelli, Giuseppe Cipriano, Giovanni Palladino e, tra i presunti attori di questo business legato ai narcotici, anche Cagnazzo e Cioffi.
Vassallo per questa ipotizzata gang era un problema. Andava eliminato.
Cipriano, Ridosso e Cioffi, ipotizzano gli inquirenti, avute rassicurazioni da Cagnazzo che il depistaggio avrebbe funzionato e che mai sarebbero arrivati a incolpare loro, iniziarono a prepararsi all’omicidio, pianificandolo ed effettuando anche dei sopralluoghi per verificare se, nell’area prefissata dove colpire, ci fossero o meno telecamere.
Per il gip, il materiale prodotto dai carabinieri del Ros e analizzato dalla Procura di Salerno è sufficiente a ritenere che Cagnazzo, assistito dall’avvocato Ilaria Criscuolo, abbia partecipato all’omicidio in veste di “agevolatore”, garantendo la copertura dei responsabili (mandanti ed esecutori) dell’assassinio di Vassallo. La presunta responsabilità di Ridosso, difeso dal legale Sergio Mazzone, invece, è collegata al sopralluogo effettuato due giorni prima dell’omicidio per capire se vi fossero telecamere e per tracciare i percorsi che i killer avrebbero dovuto seguire dopo aver fatto fuoco. Stessa condotta ascritta all’imprenditore Cipriano e a Cioffi, quest’ultimo, difeso dall’avvocato Saverio Campana. I quattro indagati sono da ritenere innocenti fino a un’eventuale sentenza di condanna irrevocabile.
La lotta ai clan, il caso Mollicone e la denuncia di Pisani
AVERSA (gt) – Radici normanne e una famiglia che quasi nella sua totalità ha legato il proprio destino all’Arma dei carabinieri. Al giorno del suo arresto, la carriera di Fabio Cagnazzo lo vedeva (e lo vede) ai vertici dei Forestali. Prima, dal 2017 al 2020, aveva guidato il comando provinciale di Frosinone: durante questa parentesi laziale ha condotto un’intensa attività investigativa che lo ha portato, con i suoi uomini, all’individuazione di due presunti assassini e all’accelerazione nelle indagini sull’omicidio di Serena Mollicone.
Prima di approdare all’accademia di Modena per intraprendere la carriera di ufficiale, lui, cresciuto ad Aversa, aveva frequentato la scuola Nunziatella a Napoli. Tra i primi incarichi di maggior rilievo ricoperti, c’è stato quello di guida della Compagnia di Castello di Cisterna. Nel 2010 venne trasferito in Puglia, a Foggia. È in quest’anno che fu accusato dall’allora vicequestore Vittorio Pisani, poi passato ai vertici dei Servizi di sicurezza nazionale e ora capo della polizia, di favoreggiamento alla camorra (vicenda che determinò conseguenze penali per il carabiniere). Il suo sbarco a Foggia incontrò il disaccordo di tanti suoi colleghi ed esponenti dell’Antimafia che diedero solidarietà all’ufficiale, che vanta nella sua carriera arresti di criminali di spessore, tra cui Vincenzo Capone, inserito nell’elenco dei cento latitanti più pericolosi d’Italia e referente di spicco del clan napoletano dei Grimaldi; Modestino Pellino, capozona del clan Moccia; Stefano Ronga, braccato a Formia e capofila del clan Ranucci. E poi c’è stato lui, Pasquale Vargas del clan dei Casalesi, ‘stanato’ in un condominio di Giugliano in Campania. E infine i fratelli Russo. Gli ha dato la caccia per 15 anni cominciando da giovane capitano quando comandava la compagnia dei carabinieri di Nola.
Come detto, quella di Cagnazzo è una famiglia dove la presenza dei carabinieri è fortissima. Già il nonno aveva scelto di legarsi all’Arma: era maresciallo. Il padre, Domenico (nel tondo), che ancora vive ad Aversa, è andato in pensione con il grado di generale di Corpo d’armata. Da tenente gli venne affidato il comando della Compagnia di Giugliano e quello di Casoria. Nell’agosto del 1973 ottenne il Comando della Compagnia di Aversa, con giurisdizione territoriale su tutto l’agro aversano. Nel 1983 il suo operato si legò alla notissima storia di cronaca di Tortora. Fu lui, in veste di guida del reparto operativo dei carabinieri di Roma, ad arrestare il presentatore televisivo, ma, ricordando quella vicenda, ha sempre chiarito che non fu lui a svolgere le indagini: “Ebbi l’ordine di arrestarlo e l’ho fatto”. Negli anni Novanta da vice comandante della Regione Sicilia, partecipò al piano che portò alla cattura di Totò Riina. Il progenitore di Domenico Cagnazzo, Salvatore, adesso è generale di brigata. Prima di raggiungere Roma, dove dirige la direzione della sanità dell’Arma, è stato comandante della legione carabinieri Marche e anche capo dell’ufficio cerimoniale dell’Arma. Il gemello di Fabio, Massimo, vanta una carriera nella complicata provincia di Reggio Calabria, poi a Nocera Inferiore, Napoli e Terni. Dal 2017 al 2020 è stato comandante provinciale dei carabinieri di Avellino e ora è in servizio a Roma. Non solo fratelli nell’Arma: Fabio ha una sorella, Donatella, laureatasi in legge con specializzazione in criminologia, ma non ha mai esercitato, preferendo alla prima laurea gli sbocchi lavorativi offerti dalla seconda che conseguì in scienze turistiche. Donatella è la moglie di Adolfo Russo, già presidente dell’ordine degli avvocati del Foro di Santa Maria Capua Vetere.
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All’ex brigadiere 50mila euro per pianificare l’assassinio
AVERSA (gt) – ”Questa persona gli dava troppo fastidio”: sono le parole di Romolo Ridosso riferite ai magistrati, quando ha deciso di svestire i panni del malavitoso per indossare quelli di collaboratore di giustizia. La persona che “dava fastidio” era Angelo Vassallo. Colui che si sentiva infastidito, invece, era l’imprenditore Giuseppe Cipriano, ritenuto dagli inquirenti coinvolto nel traffico di droga che faceva scalo ad Acciaroli. E così fu deciso di eliminarlo. Cipriano, stando al racconto di Ridosso, per preparare il delitto si rivolse al brigadiere Lazzaro Cioffi, originario di Casagiove ma legato a Maddaloni, dove si è sposato con Emilia D’Albenzio, figlia del noto Domenico, defunto boss del clan mafioso attivo nella zona calatina (connesso ai Belforte): “Gli aveva dato 50mila euro per organizzare l’omicidio.” Ma il brigadiere non sarebbe stato l’unico militare coinvolto: “C’era una squadra,” ha riferito il pentito.
Ridosso ha anche raccontato che nel 2013 incontrò proprio Cioffi nel suo bar a Pompei. “Aveva saputo che la Dda di Salerno (nella foto la sede) voleva sentirmi e mi disse di non farmi trovare e di allontanarmi da Scafati e da Pompei per un po’ di tempo, in quanto se la sarebbero ‘vista loro’.” Pochi giorni dopo quell’incontro, ha aggiunto il pentito, si verificò un tentativo di agguato nei suoi confronti.
Non è la prima volta che Cioffi viene coinvolto in vicende giudiziarie. Nel 2018 fu arrestato con l’accusa di essere vicino al clan Sautto-Ciccarelli di Caivano, riportando anche una condanna per traffico di droga, alcuni episodi di corruzione, riciclaggio e intestazione fittizia di beni (è stata esclusa l’aggravante mafiosa).
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