Carcere di Santa Maria Capua Vetere, intervista alla direttrice: “Qui porto dignità e lavoro”

Donatella Rotundo ha trasformato la casa circondariale da luogo di sofferenza in un laboratorio di riscatto. I progetti con enti pubblici e aziende come ponte verso il futuro.

329
Donatella Rotundo, direttrice del carcere di Santa Maria Capua Vetere
Donatella Rotundo, direttrice del carcere di Santa Maria Capua Vetere

Dopo un periodo buio, segnato da tensioni, oggi nella casa circondariale “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere si respira un’aria nuova, fatta di progetti, inclusione e speranza. Oggi il carcere è dotato di una biblioteca viva e frequentata, di una chiesa, di un teatro, di campi da gioco che favoriscono l’attività fisica e il benessere mentale. Sui muri dell’istituto campeggia il murale più grande al mondo, simbolo potente di rigenerazione e bellezza: e presto un secondo murale nascerà grazie al lavoro diretto dei detenuti. Un cambiamento che non è frutto del caso, ma della visione lucida e dell’impegno quotidiano di Donatella Rotundo, direttrice dell’istituto dal 2021.

Donna determinata e pragmatica, capace di unire fermezza istituzionale e sensibilità umana, Donatella Rotundo ha saputo imprimere una svolta radicale alla vita carceraria, portando avanti un’idea di detenzione che non si limita alla custodia, ma che punta alla trasformazione. Con il suo approccio concreto ma profondamente umano, ha restituito centralità alla persona, promuovendo un modello di gestione in cui la pena non è sinonimo di esclusione, ma occasione di riscatto. Ha trasformato un luogo segnato per anni da sofferenza, isolamento e marginalità in uno spazio vivo e dinamico, dove le persone private della libertà possono riscoprire sé stesse, ricostruire la propria identità, apprendere nuove competenze e immaginare un futuro diverso.

La sua energia contagiosa, unita a una leadership attenta e inclusiva, ha dato impulso a una serie di iniziative che stanno restituendo dignità e prospettiva a centinaia di detenuti. Per comprendere cosa stia accadendo davvero dietro le mura dell’istituto penitenziario, l’abbiamo incontrata e ci siamo fatti raccontare, con la passione e la lucidità che la contraddistinguono, la sua idea di carcere: un luogo dove il tempo non deve essere solo scontato, ma vissuto come opportunità di rinascita.

Direttrice Rotundo, da quando è arrivata nel 2021 il carcere di Santa Maria Capua Vetere sembra aver cambiato volto. Qual è stato il primo passo?

Il primo passo è stato ascoltare. Ascoltare profondamente, con attenzione sincera. Solo conoscendo a fondo le criticità, le storie e le potenzialità di chi vive quotidianamente in carcere si può iniziare a ricostruire. Il mio obiettivo non era solo quello di garantire la sicurezza e il rispetto delle regole – che restano fondamentali – ma soprattutto quello di dare un senso nuovo alla detenzione: restituire dignità attraverso il lavoro, la cultura, la formazione, la responsabilizzazione. Questo è il fondamento di ogni progetto che abbiamo avviato.

Il “Francesco Uccella” oggi è un vero e proprio microcosmo: sartorie, laboratori, progetti culturali. Quale idea c’è dietro questa trasformazione?

L’idea è semplice e, allo stesso tempo, rivoluzionaria: un carcere non può essere un contenitore di corpi, un luogo dove si attende passivamente la fine di una pena. Deve essere un’officina di riscatto. Se a una persona si offre l’occasione di imparare un mestiere, di sentirsi utile, cambia il modo in cui guarda il proprio passato e inizia a pensare al futuro. Non è solo una questione sociale, ma anche di sicurezza: chi esce con competenze e con fiducia ha meno probabilità di tornare a delinquere. Qui abbiamo avviato corsi di sartoria, laboratori di pasticceria, un laboratorio per la lavorazione delle nocciole in partenza. Sessanta detenuti lavorano già nella produzione di camicie e polo per gli agenti, e 22 donne producono cravatte dopo un percorso formativo certificato. Non sono semplici attività ricreative, ma vere occasioni di riscatto.

Molti dei progetti attivi hanno un respiro esterno: ristorante, ospedale veterinario, inserimento lavorativo con aziende. Non è un po’ ambizioso per un carcere?

Sì, è ambizioso. Ma io non ho mai avuto paura dell’ambizione, soprattutto quando è sostenuta da un’idea chiara e condivisa. In carcere ci sono intelligenze, talenti, voglia di riscatto che spesso restano invisibili. Se si creano le giuste condizioni, quelle energie possono essere canalizzate verso qualcosa di buono. Il ristorante, ad esempio, sarà aperto al pubblico, nascerà all’esterno del carcere. L’ospedale veterinario, invece, sarà una vera struttura operativa, nata dalla sinergia tra la Federico II e l’Asl. I detenuti lavoreranno al fianco di veterinari, tecnici, esperti: un’opportunità unica per apprendere, per responsabilizzarsi e anche per sentirsi parte di qualcosa di più grande.

Come ha reagito il personale del carcere di fronte a questa ondata di novità?

Con curiosità, a volte con scetticismo, ma poi con entusiasmo. Le novità spaventano, soprattutto in un ambiente strutturalmente rigido come quello carcerario. Ma ho sempre puntato sul dialogo, sulla condivisione. Mai sull’imposizione. Il personale è una risorsa fondamentale: senza il loro impegno e la loro professionalità quotidiana, nessun cambiamento sarebbe possibile. Se oggi abbiamo ottenuto certi risultati è anche – e soprattutto – grazie a chi ha creduto in questa visione e ha deciso di mettersi in gioco, pur tra mille difficoltà operative, carenze di organico e un sovraccarico emotivo non indifferente.

Lei è spesso descritta come una donna risoluta e instancabile. Quanto la sua personalità ha inciso in questo percorso?

Molto. Io ci credo profondamente. Ogni giorno mi alzo con un’idea nuova in testa, con un progetto da far partire, con una sfida da affrontare. La mia energia è contagiosa, o almeno così mi dicono, e cerco sempre di trasmetterla a chi lavora con me. Non riesco a stare ferma, non riesco ad accettare che le cose non possano migliorare. Se un progetto funziona, ne penso subito un altro. Ma non lo faccio per ansia di fare, lo faccio perché ogni piccolo cambiamento è un seme. E io voglio che qui crescano alberi, non solo fiori passeggeri.

Il carcere ospita più di mille detenuti, ben oltre la capienza prevista. Come si concilia questo dato con il percorso rieducativo che state promuovendo?

E’ una sfida enorme. Il sovraffollamento rende tutto più difficile: la gestione degli spazi, i rapporti umani, la sicurezza. Ma proprio per questo i progetti di inserimento lavorativo diventano ancora più fondamentali. Danno ordine, danno una prospettiva, danno un motivo per alzarsi la mattina. Lavorare in carcere significa anche creare una nuova routine, gestire meglio la quotidianità, ridurre le tensioni. E chi lavora con costanza e disciplina viene riconosciuto, premiato: ad esempio, l’accesso alla sartoria è riservato a chi si distingue per comportamento e impegno. E’ un meccanismo che funziona, e che motiva.

Come reagiscono i detenuti a questa nuova impostazione del carcere?

Con sorpresa, all’inizio. Molti non ci credono subito. E come dargli torto? C’è chi ha perso fiducia da tempo, chi si sente condannato anche dopo la sentenza. Ma quando vedono che le promesse si realizzano, che il lavoro c’è davvero, che si impara qualcosa e si viene riconosciuti per questo, cambia tutto. Questo per me è il segno che il carcere sta tornando ad essere uno spazio vivo, non più un limbo. Ed è lì che capisco che stiamo andando nella direzione giusta.

A breve alcuni capi prodotti nel carcere saranno presentati in una sfilata, indossati da lei e dal comandante della polizia penitenziaria. Che significato ha questo gesto?

E’ un messaggio forte e chiaro: crediamo nel lavoro dei detenuti, e siamo i primi a dimostrarlo con orgoglio. Non è solo una passerella, non è solo moda. E’ una forma di riscatto visibile, è il simbolo di un percorso fatto di disciplina, di fiducia, di crescita. Io non indosserò solo un vestito cucito in carcere: indosserò una storia di impegno e speranza. E lo farò per testimoniare che la dignità si può ricucire, anche dove sembrava perduta.

C’è un episodio, una storia, un momento che l’ha colpita particolarmente in questi anni?

Ce ne sono tanti e sono i momenti che racchiudono il senso del nostro lavoro. Offrire occasioni, dare fiducia, seminare rispetto. Poi, ognuno farà la propria strada, ma intanto abbiamo acceso una luce. E quella luce, a volte, fa la differenza.

Cosa sogna per il futuro del carcere “Francesco Uccella”?

Sogno che diventi un modello. Non solo per le strutture, ma per l’approccio umano. Sogno che si continui a investire nella dignità delle persone, nella formazione, nella cultura. Sogno che si abbia il coraggio, istituzionale e sociale, di scommettere sulla seconda possibilità. Perché nessuno è definito solo dal proprio errore. C’è sempre una storia dietro, e c’è sempre un futuro possibile davanti.

Una donna che progetta il cambiamento giorno dopo giorno, con lo sguardo fisso sulla dignità della persona. Donatella Rotundo non è solo la direttrice di un carcere, è la regista di una trasformazione profonda che sta restituendo umanità là dove, per troppo tempo, era stata negata.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome