Celebrare le vittime della malagiustizia

In Italia, in passato, i giorni di festa venivano segnati sui calendari con il vivido color carminio: un modo per evidenziare quello che in tanti attendevano e sfruttavano con maestria per assentarsi dal posto di lavoro. Milioni di dipendenti della pubblica amministrazione si esercitavano nel costruire ponti feriali ogni qualvolta le giornate festive si rivelavano abbastanza “contigue” da poggiarci sopra le fondamenta. Fu durante i governi dell’austerity, con la crisi del petrolio e gli scarsi indici di prodotto interno lordo realizzati, che il governo decise di ridurre le festività al minimo per guadagnare giornate lavorative. Da quel tempo, pur non essendo più tanto frequenti i giorni festivi nel Belpaese si è continuato a celebrare le più disparate ricorrenze e gli anniversari, ancorché molti di questi passassero inosservati e poco partecipati dalla gente. Nella lunga nota degli eventi manca però una ricorrenza: quella dedicata al ricordo delle centinaia di migliaia di vittime della mala giustizia. Un esercito fatto per lo più di gente anonima, condito da decine di persone note ed autorevoli. Tra queste spiccano politici e amministratori della cosa pubblica, da sempre il bersaglio preferito di certa magistratura inquirente, fatti capaci di regalare titoloni a giornali e tv e con essi quell’alone di notorietà che serve ai togati per raggiungere, prima e meglio, incarichi e vertici di una carriera. L’istituto della carcerazione preventiva ed il reato di concorso esterno in associazione malavitosa, fanno da traino per molte di queste amare vicende che colpiscono irrimediabilmente persone alle quali le sentenze di assoluzioni, intervenute dopo anni di calvario, non restituiscono né l’onorabilità, né le condizioni di cui godevano prima di finire nel tritacarne delle procure. Settimane di clamore e di disdoro mass mediatico hanno annichilito schiere di malcapitati senza che nessuna postuma sentenza potesse bastare per concedere loro un equo ristoro umano e professionale. Eppure sono oltre centomila i martiri di questo andazzo giudiziario, un numero enorme che solo in minima parte viene risarcito e comunque in maniera inadeguata rispetto al danno morale e biologico loro inferto dalle false accuse. Quale sia la spesa complessiva che lo Stato sborsa per risarcimenti, quali i costi dei lunghi processi e delle prebende economiche riconosciute ai pentiti di professione, non e’ dato conoscere. I Pentiti sono nella totale disponibilità e discrezionalità dei pubblici ministero (che solo di rado ne verificano preventivamente l’attendibilità delle accuse), utilizzati, quasi sempre, come unica fonte di prova, per avviare i processi. Non ci sono magistrati, estranei al processo, che compiano verifiche preventive, né una legge che fissi un termine tassativo entro cui il pentito debba dire tutto quello che dice di sapere. Insomma: spesso si tratta di arbitrio bello e buono quello dell’uso di questi soggetti da parte della pubblica accusa, che fa e disfa come le pare e piace, elargendo sconti di pena, dissequestro dei beni e stipendi per i familiari del pentito inseriti in un programma di protezione. Un fiume di danaro che pare non sia molto interessante per la pubblica opinione né tantomeno il Ministero di Giustizia si è mai posto il problema. Tutto resta nella indeterminatezza e, una volta spente le luci della ribalta, finisce nel classico dimenticatoio. Un oblio delle malefatte degli accusatori e delle menzogne dei pentiti oltre che delle dolorose vicende umane dei soggetti inquisiti, carcerati e poi assolti. Se l’onorabilità è definita come l’insieme degli attributi civici e morali riconosciuti ad una persona nel consesso civico nel quale essa vive e lavora, è facile comprendere che non c’è riscatto che una sentenza di assoluzione possa concedere dopo anni di sospetti e di cattiva nomea. Non sono pochi coloro che, sotto il peso della gogna mediatica e giudiziaria, si sono suicidati oppure sono diventati depressi al punto tale da diventare larve umane, lontani parenti delle persone brillanti e capaci che erano prima di finire nel mirino della mala giustizia. Quale differenza esiste tra queste persone e gli eroi che celebriamo in altre circostanze, vivi o morti che siano? Quanto vale la perdita di una vita, materiale o morale che sia, in confronto a quelli che sono caduti adempiendo ad un dovere? Perché la collettività non dovrebbe ricordarli, additandoli a monito perpetuo per una società che utilizza forme arcaiche di giustizia, che permette a dipendenti dello stato di diritto di non rispondere dei propri errori e delle proprie negligenze? In nome di quale autonomia può concedersi a chi esercita la giurisdizione di non rendere conto delle vite che ha distrutto negli ingranaggi di una giustizia che fa comodo a chi la esercita e non a chi la invoca? Francois Marie Aruet, in arte Voltaire, affermava “Se volete giudicare la civiltà di un popolo visitate i suoi tribunali e le sue prigioni”. Per quei martiri, sarebbe almeno dovuto un pensiero, un ricordo.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome