Chiara Bersani e il suo inno all’unicità

L'attrice a "Cronache": "La disabilità? E' il potenziale di un corpo non conforme, non un'eccezione". Questa sera al Teatro Nuovo di Napoli andrà in scena "Gentle Unicorn": una ricerca sul corpo politico

NAPOLI – La rassegna ‘Quelli che la Danza 2019’ questa sera al Teatro Nuovo di Napoli propone una ospite di eccezione. Sarà di scena Chiara Bersani in “Gentle Unicorn”, di cui firma ideazione e creazione. La lombarda è attrice ‘non conforme’ che trionfa perché brava e non perché disabile. Nel suo discorso di riflessione nel ritirare il premio Ubu 2018 quale migliore attrice e performer under 35 ha sottolineato che “se con il mio corpo disabile oggi sono qui, a ricevere un riconoscimento così prezioso, è perché qualcuno da chissà quanti anni ha iniziato lentamente a smussare gli angoli di un intero sistema. Se il mio corpo è qui è grazie a tutti i maestri che hanno scelto di accogliermi come allieva anche se questo significava adattare i loro metodi ai miei movimenti. È grazie ai registi, ai coreografi, ai curatori, ai colleghi attori e performer che hanno abbracciato la specificità della mia forma. È grazie a chi inizialmente non era d’accordo e poi ha cambiato idea”. Un discorso dalla forma poetica e dalla sostanza politica.

Ci spiega com’è nata la sua passione per il teatro?

E il mio contatto col teatro è stato casuale: figlia di insegnanti, la cultura in casa non è mai mancata. Già da bambina andavo a teatro, una delle tante cose che mi capitavano e mi piaceva fare, ma era una cosa fine a se stessa. Così mi sono iscritta poi all’Università, alla Facoltà di Psicologia e sono andata a vivere da sola in un’altra città, lontana dalla mia famiglia. Ma non sono riuscita a terminare gli studi in quanto ho dato la precedenza alla vera mia passione, il teatro.

Una scelta difficile?

E’ stata una sorta di assunzione di responsabilità in quanto non avevo più le energie fisiche e mentali per fare entrambe le cose. Si stavano creando due mondi troppo distanti e scivolare dall’uno all’altro era estremamente complicato. Poi ad un certo punto, mi è arrivata una proposta di collaborazione più solida con Alessandro Sciarrone che viveva nelle Marche. A questo punto era necessario che mi spostassi in continuazione per lavoro e  ho deciso di dedicarmi in toto al teatro.

Che cosa ha significato per lei l’incontro con Alessandro Sciarrone?

Un incontro umano e professionale fondamentale. Ci siamo conosciuti molto giovani, io avevo 19 anni e lui 27. Abbiamo cominciato a lavorare insieme. Poi, quando Alessandro si è allontanato dalla compagnia, grazie alla quale ci siamo conosciuti per intraprendere un suo percorso io l’ho seguito. Oramai si era creato un rapporto umano e professionale e insieme abbiamo fondato “Corpo Celeste”, l’Associazione culturale che produce e sostiene i lavori di entrambi. Da lì è iniziato un percorso di forte dialogo e collaborazione reciproca.

Cos’è il teatro per Chiara Bersani?

Il teatro è la struttura che mi ospita,  è uno spazio fisico. Per cui quando vengo chiamata ad abitarla per una mia creazione mi prendo cura della struttura e dell’insieme in sé. Mi prendo cura di tutto ciò che accade non solo in scena ma anche nel foyer, nell’ingresso al pubblico e nella biglietteria. E’ lo spazio dove sono possibili gli incontri e a me interessano proprio questi momenti.

Cosa la attrae in particolar modo?

Del teatro mi interessa l’unicità. Ogni creazione che viene riproposta è unica in quanto passa per un pubblico che non sarà mai uguale a quello del giorno dopo; questa è una delle pietre miliari della mia riflessione. A me interessa la possibilità di condividere dei dubbi e delle domande: un’esigenza di non essere sola nel rispondere alla domande che abbiamo. Io non ho né risposte né messaggi da mandare però vorrei che non fossimo soli nel dubbio. Spero sempre che il pubblico esca con delle domande più che di risposte.

Che difficoltà ha trovato nell’avvicinarsi a questo mondo?

In qualità di donna disabile, dice?

In generale.

Già il fatto di essere donna rende tutto più difficile, se a questo si aggiunge la disabilità, il discorso diventa ancora più complesso, non crede? Partendo dal presupposto di essere donna, disabile e appartenente ad una famiglia con scarse difficoltà economiche, sono stata svantaggiata in tutti i fronti. I primi scogli da superare sono stati appunto quelli economici e quelli delle limitate possibilità fisiche. Per cui per fare questo lavoro dovevo entrarci economicamente davvero, senza poter fare degli investimenti economici a priori. Le altre difficoltà esistono nel trovare un ambiente logistico adatto a chi vive la disabilità.

Quello delle strutture obsolete con barriere architettoniche è un altro grosso problema esistente nel nostro Paese.

Sì, questo è uno dei problemi grossi che in Italia non è stato ancora risolto in quanto non si prende seriamente in considerazione che ci possano essere attori professionisti su sedie a rotelle. Spesso i teatri sono vecchi, tutelati dalla Soprintendenza delle Belle Arti per cui risulta impossibile apportare modifiche invasive. Spesso i camerini sono in soffitte o in cantine con corridoi angusti e difficilmente raggiungibili per chi ha disabilità motorie come la mia. Così diventa tutto molto più complicato.

E come fa ad ovviare al problema?

Chiediamo al teatro di venirci incontro con soluzioni alternative. Ad esempio, se i camerini sono difficilmente raggiungibili per chi è su sedia a rotelle, se ne crea uno provvisorio in uno spazio a piano terra. Oppure si crea una rampa posticcia per ovviare agli scalini che portano al palco. Insomma le soluzioni ci sono basta solo volerle adottare.

“Gentle Unicorn”, perché questo titolo?

E’ il titolo del lavoro che presenterò stasera a Napoli al Teatro Nuovo. E’ il manifesto di un discorso molto lungo sulla riflessione di ‘corpo politico’ formatosi con la compagnia Lenz Rifrazioni di Parma e che si è sviluppato poi in un progetto molto più articolato. L’Unicorno è una creatura senza patria e senza storia, usato e abusato dall’essere umano, privato del diritto di parola e che desidero risarcire dei torti subiti. Un lavoro in cui proseguo la mia ricerca sul corpo politico, con un ruolo sociale visto e interpretato, consacrando carne, muscoli e ossa, cuore, occhi e respiro all’unicorno, per regalargli una storia, una scelta.

Lei fa un paragone con gli astronauti quando si avvicinano ad un nuovo pianeta. Che vuol dire?

Il paragone nasce dalla loro euforica solitudine quando si avvicinano a un nuovo pianeta. Questo per rimandare a un punto fondamentale nella comprensione delle persone con disabilità, non da considerarsi eccezioni quando dimostrano di avere talento, ma persone dal corpo non conforme e quindi, a loro modo, non eccezionali se primeggiano, vanno in scena, magari vincono premi, come è successo a me il riconoscimento Ubu.

L’allusione agli astronauti forse riguarda la prima missione dell’uomo sul pianeta luna?

Come loro, anche io vorrei mettere una bandierina ma non per fissare un punto d’arrivo. La mia vuole essere una linea di partenza perché io non voglio più essere un’eccezione. Quel premio Ubu è stata un’assunzione di responsabilità da parte del teatro italiano nei confronti di tutti quei corpi che per forma, identità, appartenenza, età, provenienza, genere faticano a trovare uno spazio in cui far esplodere le loro voci.

Dunque i premi servono anche a molte altre cose.

I premi servono anche ad aprire questioni. Io vorrei che si iniziasse a riflettere in maniera più strutturata sull’importanza di rendere veramente accessibile la formazione per attori e performer anche a corpi non conformi. Vorrei che sempre più autori, curatori, registi e coreografi iniziassero a vedere nella variabilità della forma un potenziale e non solamente un rischio. Vorrei che si uscisse dal pensiero narrativo, naturalistico, per cui uno spettacolo contenente un attore appartenente a una qualsiasi minoranza debba necessariamente affrontare tematiche relative ad essa.

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