Cosentino e la corporazione

Ovunque ci sia un monopolio statale, la burocrazia, intesa come massa di addetti ai lavori, finisce per coprirsi e e tutelarsi a vicenda. Si tratta di un naturale riflesso comportamentale che si traduce nella costituzione di una “corporazione”, mai dichiarata ma al tempo stesso presente ed efficiente nella tutela dei propri “adepti”. Se questo monopolio riguarda la giustizia, il sistema si fa addirittura ferreo, oltre che auto-referenziale, al punto da provvedere che taluni sentenze pongano rimedio all’imbarazzo oppure al disdoro che precedenti pronunciamenti giudiziari hanno, eventualmente, procurato alla corporazione dei togati. Un fatto gravissimo perché origina da un potere insindacabile ed incontrollabile, assoluto. Una vecchia massima di lord Acton, pensatore liberale, recita: “il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente”. Oggi in Italia non c’è altro potere assoluto che quello dei magistrati che sono gli unici dipendenti dello Stato ad essere immuni da colpe e da errori da loro stessi commessi, in nome di un malinteso e furbesco utilizzo del concetto di insindacabilità.

Non pagano insomma, per gli esiti di azioni e pronunciamenti errati. Ancor più tragica è la pratica di ribaltare sentenze anche differendole nel tempo, allorquando l’opinione pubblica ha perso ogni interesse ai fatti ed il tempo edace ha consumato ogni ricordo della gogna e delle pene subite dall’inquisito di turno. Un fenomeno che diventa eclatante nel momento in cui il fatto giudiziario interessa un “potente” oppure un personaggio noto all’opinione pubblica. Sentenze quindi scritte per porre rimedio all’imbarazzo che un’assoluzione creerebbe a quella parte di magistratura inquirente (leggi procure e pm) che per anni ha imbastito il castello accusatorio.

Un pratica consolidata è quella di utilizzare una legge, quella sui pentiti, che resta un’ignominia giuridica e morale, in quanto sovverte l’onere della prova di colpevolezza ponendola non in capo a chi accusa ma sulle spalle dell’accusato. Quest’ultimo è chiamato a fornire prove negative, magari confutando fatti che vengono narrati da comuni criminali, spesso senza riscontri oppure appresi per il solo “sentito dire”. La gestione dei pentiti, sarà bene ricordarlo, è affidata agli stessi pubblici ministeri, parte in causa nel processo, con buona pace della famosa terzietà, ovvero neutralità, di ciascuna delle parti coinvolte nel procedimento. Pubblici ministeri che hanno nelle mani la possibilità di allettare i dichiaranti pentiti con sconti di pena, dissequestro dei beni, sostegno economico e finanziario alle famiglie.

Si aggiunga l’uso della possibilità di utilizzare, come capo di accusa, un reato non previsto dal codice penale, impalpabile e non tipizzato, come il concorso esterno, i cui contorni sono indeterminati, e il gioco è fatto. Le cronache giudiziarie sono piene di processi imbastiti su accuse farlocche, sconfessate clamorosamente dalle sentenze di merito. Ma nessuno paga per gli errori e per le vite distrutte e tutto finisce nel dimenticatoio. Fuori da ogni metafora, evidenziamo il caso di Nicola Cosentino, politico potente ed apprezzato dagli elettori, pertanto sovvertitore di equilibri politici indigesti alla sinistra ed a quella parte di magistratura che parteggia per quell’area politica.

Le recenti e plurime dichiarazioni dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e componente del Csm Luca Palamara, e le dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sulla presunta “loggia Ungheria”, stanno a testimoniare che quelle ipotesi collusive tra la sinistra politica ed una parte del mondo togato, non sono più il frutto di supposizioni e di deduzioni. La pavidità del ceto politico ed il meschino calcolo di utilizzare la via giudiziaria per eliminare la concorrenza, ha fatto il resto con la spoliazione progressiva delle guarentigie politiche a vantaggio del potere assoluto dei giudici.

Cosentino, assolto con formula piena in due precedenti processi, dopo la gogna e oltre quattro anni di carcere preventivo, già dichiarato estraneo alla collusione politico camorristica, viene impallinato dalla corte d’Appello di Napoli in un terzo processo, quello riguardante la gestione del consorzio rifiuti Eco4. Le dichiarazioni d’accusa sono dell’ex presidente del Consorzio, Pietro Valente, indicato da Mario Landolfi, ex ministro, che in altra sede ha smontato punto per punto la veridicità di quella stessa accusa. Tuttavia questa sconfessione non è bastata ai magistrati giudicanti. Di quale accusa stiamo parlando? Quella di aver orientato il voto nei comuni di pertinenza dell’Eco 4: un’accusa aleatoria, mai riscontrata in concreto, ma sostenuta solo da suggestive deduzioni. Un’ulteriore assoluzione per Cosentino avrebbe messo alla gogna l’intera Dda inquirente, creando scandalo per chi, da vent’anni, lancia strali a vanvera. Meglio sacrificare la vita di un uomo che ledere l’immagine della corporazione?!

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