La dea beffarda

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

La storia narra che il famoso generale francese Gioacchino Murat, perso il regno di Napoli, affidatogli da Napoleone Bonaparte, fu catturato e poi giustiziato in base ad una legge da lui stesso promulgata. “Giacchino facette ‘a legge e Giacchino fui accise” diventò un monito per il popolo napoletano, un esempio concreto di come si possa essere vittima delle proprie azioni. Tale avvertimento viene spesso ricordato anche in politica, allorquando si compiono azioni e si fanno scelte che, nel tempo, finiscono per ritorcersi contro colui che le ha  sostenute oppure messe in pratica. Un recente caso di scuola viene dalla folgorante ascesa di Matteo Renzi e della repentina rovinosa caduta del medesimo, a causa del suo ondivago comportamento politico e dei propositi affermati (e non mantenuti), dopo la sconfitta sul referendum costituzionale.

In disparte la rovinosa legge elettorale che egli stesso volle, in uno con i suoi  oppositori dell’epoca, che ha determinato una frammentazione parlamentare, la mancanza di una maggioranza scelta direttamente dagli elettori e il mercimonio post voto a discapito degli impegni presi dai partiti in campagna elettorale. Insomma, una legge, quella voluta dall’ex rottamatore, che ha contribuito ad imbastardire le tesi politiche dei contendenti, divenuti poi alleati, e la formazione di tre governi, in due anni di legislatura, di segno politico diametralmente opposto.

Una confusione di ruoli che sta contribuendo a disorientare gli elettori, traditi da coloro ai quali avevano affidato il proprio voto, e dalla continua metamorfosi opportunistica pur di giungere a far parte dell’esecutivo di turno. Chi tra gli attuali leader finirà “impallinato” lo sapremo alle prossime elezioni, se non prima, per le determinazioni di un elettorato ormai in perenne transumanza, privo di punti di riferimento stabili e sicuri, orfano di ogni passata certezza. Così pare stia accadendo, nuovamente, per i fautori del giustizialismo, quella teoria basata sul convincimento che la Magistratura possa e debba fare un’opera di moralizzazione della politica agendo in un contesto di impunibilità per gli errori che commette e di promiscuità con determinate aree politiche, quindi in danno di altre aree di rappresentanza.  Per anni la politica ha vissuto sotto scacco dei giudici e delle indagini urlate e diffuse a mezzo stampa, ed i pm hanno fatto carriera per notorietà oltre che per anzianità, senza mai pagare lo scotto dei grossolani errori giudiziari commessi.

Il ciclone Palamara ha spazzato definitivamente l’aura di verginità e di candore che il potere giudiziario si era attribuita per svolgere un ruolo attivo di moralizzazione, spesso esorbitando la propria giurisdizione, assumendo posizioni vicarianti in politica. Il paradosso è che molte di queste indebite ingerenze del potere togato in danno del potere politico e parlamentare sfociavano nella promulgazione di leggi, scorciatoie legislative, utili ad aumentare il peso della magistratura nei confronti della politica stessa. Un atto di autolesionismo politico pur di mostrarsi puri e duri. Tuttavia anche in questo ambito sembra valere la legge del contrappasso di Murat.

In queste ore sono sotto i riflettori due eventi, uno politico ed uno giudiziario, che riguardano i due partiti eredi storici della Destra e della Sinistra italiana. Da un lato, quello della Destra, ove scoppia l’ennesimo caso di un pentito che rivela ai pm fatti che non trovano riscontro fattuale, ma bastano a mettere alla gogna la leader di FdI Giorgia Meloni. Un sistema che ha funzionato in passato con molti esponenti del Centrodestra attraverso l’applicazione di quell’insano ed impalpabile reato che si chiama concorso esterno. Insomma basta la parola di un pentito ed il riscontro di un altro pentito che si associa, per tenere sulla graticola il politico.

Eppure quando si è trattato di dare una tipizzazione al reato di concorso esterno gli ex Alleanzini hanno sempre indossato i panni dei sostenitori delle toghe, moralisti  ad oltranza, che mai hanno aderito ai ragionevoli propositi di chiarire e delineare gli ambiti di applicazione di quel reato. Sul versante opposto le dimissioni di Nicola Zingaretti dalla carica di segretario del Pd, sono invece figlie non di un atto legislativo ma di un compromesso politico interno al partito del Nazareno.

Un patto politico al quale serviva un utile servitore senza carisma, ma fallito proprio per l’inconsistenza di Zingaretti,  vaso di terracotta tra i vasi di ferro di politici navigati come Dario Franceschini e Andrea Orlando. Anche in questo caso, cacciato Renzi dai Dem e mancato il colpo di emarginarlo dal governo, è partita la lotta per il potere interno. In entrambe le fattispecie – per Meloni e Zingaretti – i conti della  vendetta della storia tornano, e ne fanno le spese due protagonisti. Eh si, Nemesi è proprio una dea beffarda!


Vincenzo D’Anna

*ex parlamentare

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