Di Maio e Crimi hanno completato l’opera incompiuta di Renzi e Silvio

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Luigi Di Maio

Ahinoi, ci tocca parlare ancora di Matteo Renzi. Pensavamo di essercene liberati per sempre. Che avesse finalmente capito che da quando si è rimangiato la promessa di ritirarsi dalla politica gli italiani sono allergici alla sua voce, alla sua faccia, alle sue formidabili performance masochistiche.
E invece no. Qualche genio della comunicazione, probabilmente lo stesso che gli ha consigliato la mossa suicida sul referendum costituzionale, deve avergli dato un altro pessimo suggerimento: minacciare querele a personaggi più popolari e simpatici di lui.
Il cantante Piero Pelù, Marco Travaglio e il Fatto Quotidiano, la giornalista Rai Miriano, lo chef Vissani (dopo due giorni mi fa ancora ridere), la D’Eusanio, Panorama, il sottoscritto per un editoriale su Cronache e la povera signora di Bologna che col salvabanche ha perso tutti i risparmi e ha avuto la faccia tosta di lamentarsene.
Beh, obiettivo raggiunto. I giornali sono tornati a parlare del bulletto. Io ho ringraziato il collega Bordin perché con la sua prematura scomparsa mi ha dato almeno la possibilità di scrivere di un personaggio che ha lasciato un segno nella storia del nostro Paese e di trascurare le farneticazioni del Bomba.

Il “ducetto di Rignano sull’Arno” e l’alt di Napolitano

Poi ci ho ripensato e mi è venuta voglia di riprendere l’argomento. Perché non è la prima volta che il “ducetto di Rignano sull’Arno” prova a tapparci la bocca. Insieme al sottosegretario all’Editoria Luca Lotti tentò di sopprimere il fondo per il pluralismo dell’informazione.
Fu solo grazie all’intervento del suo “dante causa”, Giorgio Napolitano, che il piano venne accantonato. Prima ancora era stato Silvio Berlusconi, per ovvie ragioni, a dare una robusta sforbiciata al sostegno ai piccoli editori. Nel 2001 e poi nel 2008, con l’allora sottosegretario Paolo Bonaiuti.
Ma anche D’Alema, Prodi e Monti hanno tentato a tutti i costi di togliere di mezzo i principali concorrenti dei grandi gruppi editoriali, quelli controllati dai signori del cemento e della finanza, quelli che da dietro le quinte muovono i fili dei politici di turno, quando non scendono direttamente in campo.

Il taglio ai finanziamenti e alla libertà di stampa

I finanziamenti sono così passati da 800 a 50 milioni l’anno. Molti giornali hanno chiuso i battenti, centinaia di giornalisti hanno perso il lavoro, l’anarchia che regna su Internet (nessuno vuole metterci mano seriamente) e il moltiplicarsi dei giornali online che vivono di collaborazioni informali ha fatto il resto.
Sono sopravvissute 52 testate, che grazie al sostegno pubblico hanno potuto garantire ai propri lettori un’informazione libera dalle distorsioni che i finanziamenti privati possono comportare. Un aiuto senza il quale la libertà di stampa prevista dall’articolo 21 della Costituzione resterebbe lettera morta.
Perché fare informazione diventerebbe un privilegio riservato ai pochi, potenti e ricchi imprenditori che, a costo di rimetterci, tengono su le redazioni per fare pressioni sulla politica e tutelare i propri interessi in altri settori. Nessuno, finora, si è voluto prendere la responsabilità politica di un simile disastro.

Il “ducetto di Pomigliano” e il favore ai “giornaloni”

Nessuno tranne i grillini, naturalmente. Il “ducetto di Pomigliano” e il fido Crimi hanno messo da parte le questioni “secondarie” come la convenzione con Autostrade, il conflitto d’interessi di Berlusconi e la legge elettorale e con somma urgenza hanno cancellato il fondo.
Naturalmente i “giornaloni” con i quali fanno finta di litigare non chiuderanno, anzi. Grazie alla strage della concorrenza, permetteranno ai loro padroni di controllare una fetta ben più consistente dell’informazione in Italia. Gli editori saranno più pochi e saranno quelli che hanno le mani in pasta ovunque.
In questo scenario da incubo, la querela di Renzi al nostro giornale fa sbellicare. Lui, che faceva colazione a palazzo Chigi con l’editore di Repubblica e l’Espresso Carlo De Benedetti. Lui, che ha stretto il patto del Nazareno con il Berlusconi di Mondadori e Mediaset.
Eppure anche nel male è stato incapace di fare gli interessi dei suoi amici. C’è voluta la “rivoluzione grillina” per abolire l’articolo 21 della Costituzione. Nemmeno l’allarme lanciato da Sergio Mattarella (“Il pluralismo è un presidio irrinunciabile dello Stato democratico”) ha potuto scongiurare il disastro.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome