Il nipote

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

Ho più volte denunciato l’approssimazione con la quale si formano i governi in Italia. Spesso si tratta di mettere insieme i gruppi parlamentari, una mera sommatoria aritmetica, al solo fine di raggiungere la maggioranza di Camera e Senato. Nel secolo scorso i vincoli ideologici, i blocchi internazionali e le esigenze geopolitiche da rispettare, diventavano un ostacolo per gli avventurieri del voto. Per i più giovani lettori va precisato che non si trattava solo di un posizionamento politico ideologico alternativo tra capitalismo e libertà da una parte e marxismo e regimi dittatoriali dall’altra parte, della immaginaria “cortina di ferro”, insomma, che divideva il mondo. Erano delle influenze forti e determinanti quelle dei “blocchi”. Tutto questo influì, per oltre mezzo secolo, sulle scelte e sulla tipologia delle alleanze di governo nel nostro Paese. Crollato, nel 1989, il muro di Berlino, simbolo della separazione tra Est ed Ovest, dissoltosi il regime comunista sovietico ed il dominio che l’Urss esercitava su buona parte degli stati dell’Europa orientale, il nodo gordiano che legava (e vincolava) l’Italia al blocco occidentale, poté essere finalmente sciolto. Credo che, come spesso accade in casa nostra, si sia passati da un eccesso all’altro. Dai vincoli ideologici invalicabili, dalle posizioni ideologiche intransigenti, si è giunti, infatti, via via, ai partiti di plastica, personalizzati e privi di qualsivoglia vita democratica interna capace di consentire la selezione della classe dirigente. Solo a sinistra sono rimaste le liturgie assembleari e le decisioni vengono prese da organismi elettivi, sia pure con sistemi che possono essere definiti approssimativi, come quello delle primarie e, peggio ancora, quelli manipolati su piattaforme informatiche, come nell’uso grillino della Rousseau. Dai blocchi, insomma, si è passati alle osmosi continue, alla perpetua fondazione di neo formazioni riferite a leader politici più che a valori ed a progetti socio economici. In sintesi: è stata buttata via l’acqua sporca dell’eterna partitocrazia e delle cariatidi immarcescibili, quali furono i dirigenti dei vecchi partiti, in cambio dell’adozione di forme di trasformismo perpetuo. Resta ancora da precisare che i vecchi partiti avevano una vita democratica al loro interno ed erano “scalabili” da nuovi dirigenti e militanti nei posti di comando. Oggi si partoriscono leader per cooptazione e per notorietà legate ad eventi specifici che con la democrazia non hanno nulla a che spartire. Chi viene selezionato in tal modo e giunge ai vertici dello Stato, non può avere alcuna considerazione del ruolo dei partiti e della loro funzione democratica in quanto frutto di volontà plurali. Ci hanno provato i 5Stelle con gli artifizi ed i raggiri del web e la panzanata dell’assemblearismo permanente, la demagogica formula di interpellare la base per ogni scelta, pur sotto il controllo telematico dei padri padroni Grillo & Casaleggio. Non c’è chi non veda come sia andata a finire quella maldestra e mendace utopia. Se queste sono e restano le forze politiche depositarie del voto popolare, nessuno può più stupirsi innanzi al fenomeno dell’astensione dilagante. Peggio ancora se il sistema di scelta viene pilotato da una legge elettorale proporzionale che calzava, sì, a pennello allorquando i partiti politici esistevano ed agivano secondo regole statutarie democratiche ma che oggi appare miseramente anacronistica. Un sistema proporzionale, infatti, premia le singole identità presenti sotto forma di forze politiche, ma se queste vengono personalizzate, il voto finisce per “depositarsi” nelle mani del capetto di turno il quale ne farà l’uso che meglio crede. Neanche ci si scomoda ad indicare, prima del voto, le alleanze ed il candidato premier sul quale si punterà per la guida del governo! Un ultimo esempio viene dal Pd che di recente ha cambiato ben tre segretari politici passando dall’opposizione al primo governo Conte (contro Lega e 5Stelle), ad un governo con lo stesso premier (in alleanza con i 5Stelle) dopo soli pochi mesi. Ora i dem hanno nominato loro leader Enrico Letta, rientrato dalla Francia, come Napoleone dall’esilio sull’isola d’Elba, e al centro di un frenetico giro di consultazioni con quasi tutti i partiti, finanche con l’odiato Matteo Renzi. Alla fine del “percorso esplorativo”, il buon Enrico ha riproposto la solita minestra riscaldata, oltre che inspiegabile sotto il profilo delle affinità politiche e programmatiche che legano il Pd col M5S: un mero patto tra compagni di merenda. Chi lo ha richiamato pensando che avesse il passo felpato e la capacità politica dello zio Gianni Letta, di costruire qualcosa di nuovo e di serio nel panorama politico nostrano, si dovrà ricredere. Non hanno richiamato lo zio ma il nipote.

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