Soluzioni serie per la scuola, niente gioco delle 3 carte

In questi tempi di pandemia solo un miracolo, dovuto prevalentemente ai lavoratori della scuola, docenti e non docenti, agli studenti e alle loro famiglie, ha consentito di dare continuità al processo di formazione attraverso la didattica a distanza. L’attuale complessivo sistema della formazione scolastica presenta un conto salatissimo. Perché le disfunzioni che oggi appaiono ancor più chiare e evidenti, a causa della Dad, hanno origini e responsabilità antiche, che vanno contestualizzate. E dipendono, prevalentemente, da una situazione di profondo disagio antecedente alla diffusione del Covid-19. Dipendono, infatti, quasi esclusivamente, dall’irresponsabile e continua pratica di tagli all’istituto della formazione pubblica avvenuto costantemente negli ultimi anni. Tagli che sono continuati fino ai giorni immediatamente precedenti la pandemia. Non è un caso se il ministro Fioramonti, poco più di un anno fa, si dimise dal suo incarico perché a fronte di ulteriori 500 milioni stanziati per le paritarie per l’anno scolastico 2019-2020 erano stati tagliati 1,8 miliardi all’istruzione pubblica, poi in parte rimessi in circolo col decreto Cura Italia del secondo governo Conte. Ma i tagli partono da lontano, cominciati già ai primi anni 2000, ebbero una repentina crescita nel triennio 2008-2011 con il record della ministra Gelmini che consentì, su sollecitazione dell’allora ministro dell’Economia Tremonti, nei suoi tre anni di mandato, tagli per quasi 10 miliardi all’Istruzione: ben 8,5 miliardi alla scuola (il 10,4% del budget totale) e 1,3 miliardi (il 9,2%) all’Università. Un salasso da cui la scuola non si è più ripresa, che ha creato una nuova generazione di docenti precari, che ha aumentato a dismisura le classi pollaio e che ci ha fatto crollare agli ultimi posti nelle graduatorie dell’Unione Europea dove, ancora nel 2017, eravamo al quartultimo posto per spesa in percentuale al Pil. Tutto questo in una dimensione in cui, si badi bene, i fondi per le paritarie (scuola e università) continuavano a crescere di anno in anno. Negli anni successivi le cose sono andate ancora peggio, soprattutto col governo Monti che operò ulteriori tagli. Poi si è cercato di rimediare. Non tanto con il governo Letta, ma con Matteo Renzi il quale ha sì investito nell’istruzione pubblica, ma ha accompagnato questa spesa con una riforma terribile, quella “buona scuola” che ha ridisegnato i sistemi formativi in funzione dei mercati trasformando, di fatto, le risorse aggiuntive in sprechi inutili e in alcuni caso controproducenti se si guarda, ad esempio, alla crescita numerica dei docenti precari. Solo nel 2018 assistiamo a un sostanziale aumento della spesa per l’istruzione ma questo viene inglobato tutto (ed era ora) per un modestissimo rinnovo della parte economica del contratto di lavoro. Poi per fortuna con i governi Conte 1 e 2 abbiamo assistito alla prima seria ancorché insufficiente inversione di tendenza che ci ha consentito, però, di recuperare solo in parte i tagli compiuti dalla coppia Gelmini- Tremonti con l’avallo dell’allora presidente Berlusconi. Insomma, abbiamo perso più di 10 anni in cui l’istruzione pubblica è stata devastata subendo un rapido declino e in cui è passata da eccellenza europea a settore in grave crisi sia sotto il profilo delle infrastrutture che della formazione. Insomma, un vero disastro a cui hanno contribuito in tanti, troppi, con un grave handicap, quello di formare almeno un paio di generazioni di studenti e lavoratori con gap importanti sotto il profilo della preparazione e della formazione sociale e culturale. Abbiamo, quindi, la necessità e l’urgenza di correre ai ripari al più presto. Va cancellata la “buona scuola” e la sua idea di legare il mondo della formazione ai mercati per tornare alla formazione di libere coscienze attraverso lo studio e la preparazione. Servono investimenti decisivi per il futuro del nostro Paese, prima che sia troppo tardi. Mentre il PNRR prevede investimenti straordinari in edilizia scolastica appare sempre più necessario affrontare il tema del reclutamento dei docenti e quello degli organici. Volge al termine l’annus horribilis della scuola segnata dal lockdown per il covid e dalla didattica a distanza in cui il precariato ha raggiunto livelli con oltre 200 mila supplenti necessari a garantire il diritto allo studio a milioni di studenti accolti in aule piccole e sovraffollate che contravvengono alle regole prescrittive per contrastare la diffusione del virus. Ancora oggi sono in vigore i parametri di dimensionamento introdotti con la legge 133/2008 del duo Gelmini-Tremonti che rendono difficilmente applicabili le norme su distanziamento: classi sovraffollate in spazi fisici inadeguati a garantire i 2 metri di distanza che, oltre ad essere un pericolo per la salute, producono anche un danno formativo. Quella del precariato rappresenta un’emergenza strutturale che si aggiunge a quella causata dalla pandemia e i tagli da 8mld di euro alla scuola pubblica hanno impedito qualsiasi investimento per anni: dai banchi, all’edilizia scolastica passando per il blocco del turn over che ha ulteriormente alimentato il fenomeno del precariato. Questi i nodi irrisolti di una scuola travagliata per la quale sono state immaginate soluzioni fantasiose come la scuola nelle piazze, nei teatri, le lezioni rovesciate e le mura abbattute per ampliare gli spazi sottratti alle palestre per costruire nuove aule; e ancora i metri e le rime boccali, la dad e poi la did e lo sdoppiamento delle classi e poi le ordinanze regionali ribaltate dai giudici amministrativi. Una girandola di provvedimenti che ruotano intorno al problema di fondo: spazi scolastici insufficienti per classi fino a 27/30 alunni e organici di diritto inadeguati. Sono questi i temi che il Ministro Bianchi dovrà affrontare perché a settembre non ci si ritrovi allo stesso punto dal punto di vista logistico, didattico e sanitario. Un ulteriore rinvio di scelte improcrastinabili non sarebbe più giustificabile.

Rina Valeria De Lorenzo
Parlamentare Leu

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