La camorra che è in noi

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

È dai tempi del Regno delle due Sicilie che in Campania si discute di “camorra”. Sia quella vera, sia quella che, spesso, il popolo individua nei gangli del potere politico istituzionale di uno Stato considerato patrigno e, quindi, causa indiretta del fenomeno malavitoso. D’altronde, fu proprio contro l’incuria dello Stato, considerato il principale responsabile della condizione di povertà e di emarginazione dei ceti più umili, che prese forma, nei secoli scorsi, la cosiddetta “onorata società”, una sorta di stato parallelo, una rete di protezione sociale in grado di poter garantire giustizia e lavoro, alla quale ci si rivolgeva ancor prima dell’avvento dell’Unità d’Italia. Insomma, questa organizzazione nasceva come ancora di salvezza per tutti coloro i quali si sentivano trascurati ed umiliati dal potere costituito.

Era detta “onorata” perché retta da regole sommarie quanto ferree, che ne delineavano i principi ispiratori. Per “onore” non si intendeva certo l’insieme degli attributi civici e morali, che una comunità riconosce ad un individuo, quanto una serie di precetti ed obblighi comportamentali a cui il Camorrista si doveva attenere. Ovviamente si trattava di regole che, sia pure elaborate in nome del bene e del sentimento di giustizia, venivano dettate non sulla base del diritto e delle libertà civiche delle persone, quanto sulla base della primitiva legge del taglione, della punizione esemplare per quanti violavano il codice di condotta. In quel “cartello” operava un potere occulto e un vero e proprio esercito che reclutava i propri soldati per imporre con la forza dell’intimidazione e della violenza il proprio codice, in mancanza di una risposta soddisfacente da parte delle autorità preposte.

Quel potere incontrollato ed auto referenziale basato sulla prevaricazione, finiva per divenire non solo illegale ma al tempo stesso causa di angherie ed efferati delitti. Ancora oggi, se si guarda ai giuramenti pronunciati da ‘ndranghetisti e mafiosi, un po’ sulla stessa falsariga di quanto accadeva nell’onorata società, la formula è quasi la stessa, con tanto di rituale segreto e la canonica pungitura con versamento di sangue. Un esempio di cosa sia alle origini, questa pseudo forza moralizzatrice, viene dalla lettura de “Les Garibaldiens”, il reportage che Alessandro Dumas (padre) registrò al seguito della spedizione garibaldina con la quale il regno del Piemonte, auspice la volontà degli Inglesi, riuscì ad annettersi, per mano militare, il Regno della due Sicilie e le ricchezze possedute da quest’ultimo.

Ebbene, lo scrittore transalpino, durante un ricevimento che veniva dato a Napoli, allorquando Garibaldi ne prese possesso, giungendovi peraltro non in groppa ad un cavallo bianco, come eroicamente viene immortalato in tante stampe e sculture d’epoca, bensì comodamente seduto in treno da Salerno, incontrò Liborio Romano, allora prefetto di polizia. Costui era stato prima il capo della “onorata società”, poi promosso prefetto di polizia dal re Borbone, per certi versi funzionale ad usare anche la malavita per mantenere l’ordine in città. Insomma non c’è miglior guardiacaccia che un ex bracconiere!! Innanzi al prefetto, Dumas chiese al medesimo come mai questi, così bravo a reprimere giacobini e carbonari non avesse mai debellato la criminalità diffusa.

Romano rispose: “Eccellenza è semplice individuare un carbonaro da come vive, da come veste e da come parla. Più difficile individuare i camorristi perché questi a Napoli vestono e parlano come i galantuomini”. Una risposta icastica con la quale si sintetizzava la circostanza che il malaffare, la corruzione, la compromissione era divenuta patrimonio comune con la società civile, se non anche con gli apparati dello Stato. Insomma un luogo comune una mentalità condivisa!! È questo impasto di consuetudine comportamentale diffusa che ha inaugurato la stagione delle connivenze tra il potere costituito e gli ambiti malavitosi ed affaristici nel Meridione. Insomma per arginare il fenomeno è mancata quell’etica pubblica e quella coscienza civica che sono diventate, più consapevolmente, una sorta di brodo di cultura perché, nei ceti più bassi e derelitti, si continuasse a considerare “ naturale “ la malavita come strumento per un arricchimento, ancorché fosse fraudolento.

In questi giorni a Caivano, nel mentre si dava corso ad un’iniziativa solidaristica, i clan hanno fatto sfoggio di potenza alternativa recapitando il loro messaggio attraverso la “stesa”: un corteo di motociclisti che spara colpi di mitra e pistola in aria per affermare il controllo del territorio. Don Patriciello, attivo prete che combatte in quelle terre per l’ambiente e la legalità, ha malinconicamente affermato che lì ed in Campania ha vinto la camorra. Io non condivido. Perché la camorra vince quando la società civile è tale di nome e nulla muove contro questo stato di cose che non è solo affare delle forze dell’ordine ma di tutti i cittadini.
Anche di quelli che vestono e parlano come i galantuomini, all’apparenza.

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