La forza delle società aperte

Per chi non conosce K.R. Popper, il filosofo e sociologo austriaco che inventò la definizione, sarà bene definire cosa siano le cosiddette “società aperte” o big society. Ebbene con questo termine si intende il modello di società nel quale esistono istituzioni democratiche di tipo parlamentare, dove il popolo può legittimamente, con la forza del voto, determinare il cambio del governo e la classe dirigente al potere, senza alcun spargimento di sangue. Sono società aperte quelle nelle quali tutte le opinioni sono riconosciute tranne quelle espresse dagli intolleranti e dai violenti. Dove chi detiene il potere può essere sottoposto alla più severa e continua critica da parte di ciascun cittadino. Tali società si articolano sulla base di libere associazioni nate per la tutela dei legittimi interessi dei cittadini depositari di diritti civici indisponibili a qualunque potere organizzato. In queste società la libertà è sempre accompagnata dalla responsabilità e dal dovere di far convivere, attraverso la legge, i diritti soggettivi con quelli collettivi. In altre parole: nessun diritto personale può essere disconosciuto se non per garantire medesimi diritti a tutti. Quindi, riepilogando: nelle “società aperte” libertà, democrazia e benessere sono indissolubilmente concatenate tra loro e la scala dei valori morali, che caratterizza l’agire del singolo individuo, soggiace alcune volte al superiore interesse del raggiungimento del bene pubblico e collettivo. Questa tipologia di società è caratterizzata da quella forma di organizzazione che si definisce “liberale” nel politico e “liberista” in economia, ovvero istituzioni libere e democratiche che garantiscono i diritti dei cittadini e che in economia sono identificabili attraverso il libero mercato di concorrenza. Quasi tutte le società aperte si caratterizzano per questo assetto dello Stato e dell’economia e per la presenza di leggi che ne tutelano il rispetto. Nella recente crisi tra Mosca e Kiev, al di là degli appetiti e dei sogni di dominio di Vladimir Putin, si scontrano due opposti modelli di società. Da un lato, infatti, c’è l’Ucraina che spinge per essere ammessa tra le regioni europee sotto l’ombrello protettivo del patto atlantico; dall’altro la Russia post comunista che rialza il capo dopo la caduta dell’ideologia marxista e che ha portato a sintesi originale e contraddittoria due modelli: quello liberale sul piano economico e quello dispotico e centralista sul piano politico ed istituzionale. I russi, alla pari dei cinesi, sperimentano un modello che è capitalista in economia e social statalista in politica, con forte connotazione dispotica, governato da una nomenclatura inamovibile che calpesta i diritti dei governati e si arroga il diritto di interpretare, senza consultare nessuno, la volontà popolare fino a dichiarare una guerra di conquista in mancanza degli organi democratici dello Stato. Insomma: una cesura profonda tra libertà e democrazia, tra benessere economico e diritti civici. Una specie di terza via tra liberalismo e social statalismo che illude il popolo attraverso gli agi del consumismo facendosi cedere, con forzoso esproprio, la parte dei diritti civili e della libertà di autodeterminazione, oltre alla facoltà di poter determinare la guida e la politica del governo. Atrocità e lutti di una guerra senza quartiere e senza pietà a parte, quello al quale stiamo assistendo in questi giorni, è lo scontro tra due modelli di civiltà e società che non sono secondari rispetto ai sanguinosi eventi bellici. Può una società considerarsi libera se non riesce a liberare la propria democrazia dall’ipoteca degli oligarchi economici e degli autocrati politici che da oltre trenta anni, giocando sul dettato costituzionale e poi sulle libere elezioni, restano in carica indefinitamente? Può essere considerata democratica una società del genere se chiunque elevi una critica oppure esponga opinioni contrarie al governo viene trovato morto oppure sbattuto in carcere? Si può ragionevolmente attendere che tali governanti siano capaci di poter accedere attorno ad un tavolo diplomatico senza mostrare ottusità ed intransigenza in difesa di quei modelli illiberali che presidiano società asservite oppure condizionate nelle loro sovrane determinazioni ed al contempo minacciando quelle libere ed aperte come di recente è’ accaduto nel caso di quelle svedesi, finlandesi e lettoni? Innanzi a siffatto stato di cose qual è la condotta più appropriata e più prudente: quella dell’arrendevolezza e del pacifismo disarmato, oppure quella che mostra la concordia e la determinazione ad opporsi alla tirannide realizzando società aperte? Sia chiaro: non si tratta solo di decidere questo. La domanda, infatti, va oltre il contingente, ed è rivolta ai pusillanimi, agli ignavi, ai sofisti ed agli agnostici che spuntano come i funghi per atteggiarsi a titolari del pacifismo e della libertà: può essere compatibile un’idea di progresso e benessere disgiunta da concetti come libertà e democrazia? Non lo credo possibile.

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