La nemesi grillina

“Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”. Le profetiche parole di Abraham Lincoln, padre della patria americana, calano come un macigno tombale sulla storia politica del M5S, ormai polverizzato e disperso in tante schegge impazzite dopo la “scissione” guidata da Luigi Di Maio. Assistiamo, infatti, in questi giorni, alla definitiva dissoluzione del progetto “rivoluzionario” cui, poco più di un decennio fa, diede vita la società lucrativa fondata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, titolari del logo pentastellato oltre che padroni incontrastati del partito, sotto il profilo della conduzione politico-ideologica e di quella finanziaria. Non si era mai visto, fino ad allora, che una società avente scopi commerciali potesse diventare anche il nucleo fondante ed operativo di un movimento politico presente in Parlamento oltre che in tutte le assemblee elettive del Belpaese! Una commistione tra politica e guadagni sconosciuta al mondo intero e che, per paradosso, prese vita ed ebbe successo – udite udite – in nome di una nuova etica pubblica e della moralizzazione dell’agire politico in Italia! La critica messa in atto dai grillini contro le istituzioni della Repubblica fu aspra e senza scrupoli, realizzata anche attraverso tecniche di divulgazione di massa basate sull’utilizzo sapiente dei social. Manipolando (ed influenzando), attraverso quella stessa rete, l’opinione pubblica, pure con l’uso di notizie false e tendenziose, si alimentò, nel corso degli anni, una vera e propria campagna di delegittimazione della politica e del Parlamento. Così, chiunque avesse avuto pregresse responsabilità politiche oppure amministrative, finì per essere bollato come l’appartenente ad una casta di privilegiati e di corrotti che avevano affamato il popolo e coartato le volontà dei cittadini. In questo contesto creato ad arte crebbero odio, rancore sociale e disprezzo indiscriminato verso chiunque si fosse cimentato nell’azione politica. Il popolo fu rappresentato come buono e onesto per principio assunto e tutto il rimanente poco più che un’accozzaglia di mestatori e di mascalzoni inclini a compiere qualsiasi nefandezza. Una prospettiva filosofica e morale che fu accolta largamente non fosse altro perché addossava agli altri le vesti di capro espiatorio di tutti i mali denunciati. La teoria calzava a pennello per buona parte degli italiani i quali riversavano frustrazioni e malcontenti sui social: maestri della tastiera, anonimi moralisti in servizio permanente effettivo. Vide così la luce un vero e proprio blocco sociale che poi si trasformò in blocco politico che elaborò le primordiali tesi di quello che divenne il “programma elettorale” dei 5 Stelle. Quest’ultimo ebbe come denominatori il moralismo, basato sull’onestà personale, ed il qualunquismo, basato sull’assoluta mancanza di un qualsivoglia riferimento a teorie economiche, sociali e culturali tipiche della politica. Per i pentastellati, insomma, sarebbe bastato un poco di onestà ed un pizzico di buon senso per amministrare se non governare l’intera Nazione. Al macero la storia, i valori di riferimento e la visione socio economico del Paese, con tutta la classe dirigente che si era formata nel corso dei decenni, etichettata come marcia e incompetente. Come in ogni rivoluzione che si rispetti, a capeggiare il movimento, oltre ai proprietari della ditta Grillo & Casaleggio, arrivò una schiera di giovanotti di bell’aspetto, dall’eloquio disinibito (ma anche inconcludente), che in virtù del fatto che non avessero né arte né parte, si proposero come governanti e moralizzatori dei costumi politici corrotti, nonché come coloro i quali avrebbero posto riparo ai torti subiti dalla gente. Il Parlamento, secondo questi tipi, era da considerarsi come un covo di malfattori da “aprire come una scatoletta di tonno” e la nuova classe dirigente doveva essere formata da gente capace di rispettare il decalogo politico che nel frattempo i giacobini del terzo millennio si erano dati. Uno vale uno, limite dei mandati elettivi, dimezzamento degli stipendi dei parlamentari, trasparenza nelle decisioni e, soprattutto, democrazia assembleare (leggasi la rete telematica al posto della vecchia democrazia parlamentare), furono i loro cavalli di battaglia, unitamente al più grande degli “specchietti per le allodole” destinato agli italiani: il reddito di cittadinanza. La storia ci ha consegnato la verifica della fallimentare esperienza, delle contraddizioni e delle menzogne di questi rivoluzionari da operetta e soprattutto la loro vocazione al potere e l’attaccamento spasmodico alle poltrone. A guardarli da vicino sembrano proprio il prodotto di quella classica “italietta” fatta dagli italioti furbi e moralisti per conto terzi. Che dire? Nemesi, la dea della vendetta, ne ha rivelato, con il tempo, la pochezza insieme a quel popolo che, votandoli, si è mostrato, sia ben chiaro, anch’esso ben poca cosa.

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