L’esattezza non è la verità. Abolire le prove Invalsi?

Il commento di Ernesto Paolozzi: "Personalmente sono da sempre contrario ai metodi di valutazione fondati su criteri cosiddetti oggettivi. La scelta stessa dei criteri è soggettiva, infatti. Solo una volta formulati assumono la forma dell’oggettività, dell’esattezza. Ma esattezza e verità non sempre coincidono".

Ernesto Paolozzi, docente di Storia della Filosofia contemporanea presso l'università Suor Orsola Benincasa di Napoli

Nel mondo politico si è sempre sostenuto che toccare la scuola non portasse bene. Eppure dalla seconda repubblica ad oggi ci sono state più riforme del sistema formativo italiano che in tutti gli anni precedenti. Non è stato un bene né per la scuola né per le classi politiche affette da mania riformatrice quasi a conferma della preoccupazione espressa da uomini politici più cauti, più esperti, conoscitori del mondo della scuola e dell’università, consapevoli della complessità della questione e delle deficienze delle classi dirigenti, cosiddetti esperti per primi, a comprendere le vere dinamiche della formazione e dell’istruzione dei giovani.

Per questo, probabilmente, il nuovo ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, si muove con passo felpato, pìù da vecchio democristiano che da leghista quale dovrebbe essere. Rilascia interviste nelle quali afferma che le prove invalsi non saranno modificate ma rimanda di un anno l’introduzione delle prove all’esame di maturità. Prepara in sordina una commissione, anzi una mega commissione, che dovrà preparare un piano per eliminare gli istituti autonomi che gestiscono la valutazione ridando centralità al ministero. Non è chiaro come saranno modificate le prove, se verrà messo in discussione il metodo, ma certamente il segnale non è incoraggiante per i sostenitori della valutazione attraverso i quiz, i test.

Insomma, il ministro lancia la pietra e nasconde la mano usando una strategia opposta a quella usata per l’immigrazione per la quale si mostra la mano che impugna la pietra ma non si scaglia la pietra. Personalmente sono da sempre contrario ai metodi di valutazione fondati su criteri cosiddetti oggettivi. La scelta stessa dei criteri è soggettiva, infatti. Solo una volta formulati assumono la forma dell’oggettività, dell’esattezza. Ma esattezza e verità non sempre coincidono. “Mi dici l’iniziale del nome della punta più forte della nazionale italiana?” “Certo, la I”. ”Bravo, risposta esatta.” “Con quale squadra gioca?” “Con l’Inter, maestra. Mauro Icardi.” Ma no, Icardi è argentino e gioca con l’Argentina, è Insigne, Lorenzo Insigne del Napoli.

Quaranta anni di confusione fra esattezza e verità, fra pensiero calcolante e pensiero comprendente, perdita del senso della storia in favore di risposte meccaniche prive di collegamento e di argomentazione, di riduzione della bellezza, dell’arte, a schemi e nozioni asettiche e astratte, hanno devastato la cultura del mondo occidentale. Altro che televisioni commerciali. Il danno arrecato dal crescente involgarimento del mondo dell’intrattenimento non è certo inferiore al danno arrecato dalla crisi strutturale della pedagogia neopositivista che ha cancellato le faticose conquiste della filosofia degli inizi del secolo scorso.

Non sembri paradossale, ma negli ultimi anni ciò che meglio ha rappresentato la rivolta contro lo schematismo calcolante è il regista di un film di largo successo, L’attimo fuggente. Il protagonista, un docente di letteratura che presto incontrerà la stima e l’affetto degli alunni e l’odio del mondo accademico, compie un gesto simbolico di grande rilevanza: invita gli studenti a stracciare un saggio introduttivo di un noto professore nel quale l’arte veniva ridotta, sepolta in astratte regole, stupide formule, retorici esercizi, sterili questioni di contenuto.

Per noi italiani basterebbe leggere Francesco De Sanctis e Benedetto Croce. Oppure dare seguito alla pedagogia della complessità di Edgar Morin, autore molto noto ma poco conosciuto. Meglio una testa ben fatta che una testa ben piena, recita il titolo di un noto libretto di Morin che cita il vecchio Montaigne. Per insegnare anziché ammaestrare.

Ernesto Paolozzi

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