L’illusione dei tecnocrati

Il cosiddetto “governo dei tecnici” risale agli anni Novanta del secolo scorso, quando era premier l’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. Sostanzialmente si trattava di far presiedere il Consiglio dei Ministri ad un non parlamentare assistito da un determinato numero di ministri scelti al di fuori delle appartenenze politiche, per chiari meriti e competenze nel ramo delle materie loro assegnate. Arricchiti anche da figure politiche di alto profilo, gli esecutivi tecnici hanno sempre rappresentato una scialuppa di salvataggio allorquando non si è riusciti a formare un governo politico e, di converso, un’auto sufficiente maggioranza parlamentare. L’ultimo di questi “governi tecnici” è quello presieduto da Mario Draghi, denominato di unità nazionale in virtù del fatto che sono presenti nell’esecutivo ministri di quasi tutti i partiti politici. Sono anni che viene propinata ai cittadini l’idea che tale tipologia di team possa garantire un’azione al di sopra delle parti, una gestione che faccia leva sulle riconosciute specifiche competenze di quanti sono chiamati a farne parte. Tuttavia così non è mai stato sia perché i ministeri tecnici sono stati delimitati, in genere, a quelli economici (Tesoro, Bilancio, Finanze), sia perché essi sono stati integrati con deleghe conferite a politici mascherati da intellettuali. Venuti meno i partiti politici tradizionali, le nomine sono passate nelle disponibilità dei satrapi che si sono intestati i nuovi partiti, o meglio il simulacro di questi. Ne è derivato che il rapporto tra i presunti “intellettuali-tecnici” è diventato di tipo personale col leader, oppure legato a fondazioni che fanno da supporto pseudo culturale a questo o a quel leader politico. In questa condizione la scelta tecnica – governo di salute pubblica o di unità nazionale che esso sia – rischia di trasformarsi in mera rappresentazione semantica così come nella Prima Repubblica accadde con i famosi governi balneari che duravano lo spazio di un’estate. Lo stesso dicasi per Draghi che si regge perché ha l’aureola del tecnico chiamato a salvare la Nazione, e che godrà del tempo necessario che serve per eleggere il nuovo Capo dello Stato. Sia perché potrà essere egli stesso a salire sul colle del Quirinale, sia perché raggiunta quella tappa, la compagine di governo finirà col disaggregarsi e ciascuno se ne andrà nel cantone che più gli appartiene per affrontare le politiche. Ora, la cocente sconfitta elettorale del centrodestra che, alle amministrative, ha portato a casa sindaci solo in alcuni Comuni minori, con l’eccezione di Trieste, convincerà Meloni (FdI) e Salvini (Lega) a ritornare a fare comunella con o senza il partito di Berlusconi che ormai si conferma essere un cespuglio. Tranne Antonio Tajani, portavoce di Forza Italia, che sembra far leva su di una faccia tosta ed una zucca vuota, tutti gli altri capibastone del centrodestra sanno bene che perdendo (anche) le politiche arriverà, forse con un irrimediabile ritardo, la capitolazione dei leader che oggi governano i “loro” partiti a titolo personale. Tuttavia nessuno credo possa illudersi che la vicenda amministrative possa essere lo specchio fedele del risultato di là da venire con le elezioni per il rinnovo del Parlamento. Innanzitutto perché è prassi quasi consolidata che il voto possa cambiare radicalmente rispetto al verdetto delle comunali. Il secondo è che chiunque vinca, con questo sistema elettorale, non riuscirà a formare un governo politicamente coeso e duraturo. La delega in bianco che il sistema proporzionale concede ai partiti, li spinge inevitabilmente a trattare tra loro, una volta finito lo spoglio, a prescindere da ciò essi affermeranno in campagna elettorale. Terzo punto: quello delle mancate riforme di sistema, sia costituzionali che fattuale. Senza cambiare il bicameralismo perfetto e senza ridare alle Camere il ruolo centrale (e non solo di mera ratifica dei decreti del governo) che spetta loro, tutto diventa inutile. Senza riformare la giustizia, il fisco, la sanità, la burocrazia qualunque sia il colore e la natura del governo di turno, si tirerà a campare senza avere la forza ed i numeri sufficienti per incidere a fondo sull’attuale stato delle cose. Sono anni che parliamo delle stesse cose ma i governi si susseguono somigliandosi, ovvero conformandosi all’impotenza decisionale. Il calo costante degli elettori è continuo se si pensa che i sindaci sono stati eletti con cifre di partecipazione elettorale che superano di poco un terzo degli aventi diritto. Così procedendo la partecipazione chi inciderà sulle scelte sarà la piazza vociante e turbolenta, che intimerà le istanze radicali e tutto finirà in baldoria continua. In assenza di partiti politici e della capacità di mediazione che la Costituzione riconosce ai medesimi, tra popolo ed istituzioni, nessuno può escludere niente, né dare assicurazioni. I tecnocrati sono una scorciatoia peggiore dell’ostacolo che intendono scansare.

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