L’intervista. Ciambriello: “Detenuti in pandemia tra sofferenze atroci, serve un mini-indulto”

La rabbia del garante dei detenuti Ciambriello: “Molti politici, magistrati e persone comuni ritengono i reclusi cifre di scarto, ma la pena dovrebbe rieducare”

Samuele Ciambriello
Samuele Ciambriello

NAPOLI – “Viviamo in un Paese senza memoria. Sulle carceri parla solo il giustizialismo”. Il garante per i detenuti della Campania Samuele Ciambriello scandisce ogni parola, durante la sua visita alle redazioni di Cronache di Napoli e Cronache di Caserta (nella foto). Sa che “c’è qualcosa che non va nel sistema”. E lancia l’allarme sull’emergenza Covid vissuta dai carcerati. Snocciola dati, cita episodi, ci parla dei mille problemi che i detenuti affrontano ogni giorno, quelli vecchi e quelli nuovi.
“All’estero, se qualcuno commette un reato, si parla al plurale delle pene da infliggere. In Italia diciamo ‘la pena’, perché qui questa parola è sinonimo di carcere”.

Cosa vuole dire?

“Dovremmo prendere consapevolezza del fatto che oggi il carcere è criminogeno. Basterebbe applicare la Costituzione e mettere in campo misure alternative. Ragionare sulla qualità della pena. Non facciamo nessuna di queste cose”.

Qualcuno potrebbe replicare che chi sbaglia, poi paga.

“Anche io sono per la pena certa. Ma oggi una persona rischia di entrare in cella e di subire la malasanità, o la malagiustizia. Ma su questa realtà, società civile e politica tacciono. C’erano già delle denunce per i pestaggi a Santa Maria Capua Vetere, prima che scoppiasse lo scandalo. Ma se non ci fossero state quelle immagini, chi si sarebbe occupato di ciò che accadeva lì?”.

Poi c’è il problema del sovraffollamento.

“A Poggioreale ci sono 2.200 detenuti. Ce ne dovrebbero essere al massimo 1.600. Ma un paio di padiglioni sono chiusi e in ristrutturazione. Chi sbaglia può essere privato della libertà, non della dignità. E il Covid ha peggiorato la situazione. A chi viene arrestato dovrebbe essere assicurato anche l’isolamento sanitario, invece si ritrova in stanze spesso sovraffolate. I tre fermati per i disordini di Roma sono stati trasferiti a Poggioreale e sono in una cella da sei. L’ho visto con i miei occhi. Così non va. Sono già morti sei detenuti. E anche sei agenti e un medico a Secondigliano”.

Perché solo ora grida allo scandalo?

“Abbiamo raggiunto la misura. La politica, invece di pensare al senso del suo ruolo, pensa al consenso. Senza contare che c’è una parte dell’opinione pubblica che segue ancora la logica dell’“occhio per occhio, dente per dente”. Ma questa si chiama vendetta, non giustizia. E si fa un pericoloso salto indietro nel tempo. Per tanti cittadini, ma anche per tanti magistrati e altrettanti politici, i detenuti sono cifre di scarto della società”.

Cosa si può fare a questo proposito?

“Innanzitutto servono psicologi e psichiatri. Altrimenti queste persone vivranno in uno stato di precarietà perenne, che peggiora solo le cose. E servono più agenti della Penitenziaria. Dobbiamo passare dalla reclusione alla inclusione. A un carcere accogliente, anche per i detenuti difficili. E a progetti che li coinvolgano”.

Cosa è successo durante la pandemia?


“In Italia nulla, purtroppo. Sono morti agenti e reclusi, in attesa che fosse adottato un provvedimento serio per risolvere il problema. E invece il governo ha preso una sola decisione: chi deve scontare un anno e mezzo può andare a casa con il braccialetto elettronico. Ma spesso i dispositivi non erano nemmeno disponibili. Negli altri Paesi del Consiglio d’Europa, già l’anno scorso 128mila reclusi erano stati rilasciati per prevenire il diffondersi della pandemia. Visto che qui non si fa nulla, che non si parla di amnistia né di indulto, sarebbe una sorta di ristoro per queste persone”.

La ritiene una cosa fattibile?

“Basterebbe che la politica prendesse conscienza della portata del problema. Proviamo a immaginare cosa può provare un recluso che si è vaccinato in carcere, che non ha potuto vedere i suoi familiari durante tutto il periodo di pandemia, che non ha potuto lavorare, né fare corsi di formazione, che ha subito più di tutti le restrizioni imposte dalla pandemia. Alcuni di loro si sono contagiati e sono morti. All’esterno del carcere c’è stato un ristoro per tutti, perché per loro non è stato fatto niente?”

In concreto, a quale misura pensa?

“A un provvedimento di carattere generale, un anno di condono. Una sorta di piccolo indulto. Sarebbe un atto di giustizia vera, utile a ridurre la distanza tra il carcere così come è oggi e quello di cui parla la Costituzione, ossia un luogo di rieducazione. Non si può continuare a morire in carcere e del carcere. In molte celle mancano docce e bidet. Serve aggiungere altro?”.

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