Maurizio Casagrande si racconta a “Cronache”: “La risata è un’apertura dell’anima”

L'attore in scena al Teatro Diana di Napoli con “Mostri a parte”

NAPOLI – Torna al teatro Diana di Napoli con “Mostri a parte” l’attore napoletano Maurizio Casagrande. Con uno spettacolo che ha fatto registrare un fulmineo sold-out per tutte le date in cui va in scena nel teatro vomerese, Casagrande e la sua compagnia, composta da Fabio Balsamo, Tiziana De Giacomo, Nicola d’Ortona, Marianna Liguori, Giovanna Rei e Claudia Vietri, conquistano la platea con uno show divertente, ma non solo. Le risate scaturite dalle battute e dagli irresistibili tempi comici dell’attore, culminano in una riflessione su un tema estremamente attuale. Quello dell’affannosa ricerca della popolarità, della corsa alla visibilità con ogni mezzo, compreso quello di vendere la propria arte, pur di strappare l’applauso (o il pollice all’insù) di una platea ormai assuefatta ai “nuovi mostri” dello show business. Ed è su questo gioco di parole che Casagrande tesse la tela della sua personale denuncia, portata avanti a colpi di battute ben studiate, e spesso e volentieri, improvvisate.

Maurizio, raccontaci da dov’è nata l’idea di questo spettacolo.

Lo spettacolo nasce da una mia riflessione sui punti di riferimento che i giovani hanno oggi. Si tratta di modelli scadenti, non per popolarità, ma per i contenuti che in alcuni casi mancano completamente. Vivono in un mondo fatto di persone che vogliono diventare famose a tutti i costi, ed io, pensando a quando ero io un ragazzo, ricordo che ero alla continua ricerca del talento degli altri. E lo cercavo perché volevo imparare, da musicisti, attori, artisti. Non mi interessava che fossero famosi, ma solo che fossero bravi. Io ero abituato ai “mostri sacri”, mentre i ragazzi lo sono ai mostri e basta. Da qui, l’idea di portare questa riflessione nel mondo del fantastico e del favolistico, e vedere le caratteristiche di questi personaggi, e cosa si prova a viverci in mezzo.

Il protagonista è una star degli anni ‘90 che ebbe un grande successo con una sola canzone. Lui è uno che ci crede, ma che non è mai riuscito a ripetere il suo successo non volendo corrompersi ai bisogni del pubblico, motivo per il quale è stato dimenticato. La sua donna è invece famosissima, ed è il suo opposto assoluto. Sono un po’ come dottor Jeckyll e Mr Hide: lei brava a vendersi e a trovare il gusto anche quando non è il suo. I due litigano per i loro mondi opposti, e lui pensa che l’unica soluzione per riconquistarla sia cambiare e diventare un “mostro” come lei. Così scopre di essere un erede del dottor Jeckyll e viene a contatto con l’elisir che trasforma le persone nell’opposto di quello che sono.

Possiamo dire che i mostri che porti in scena sono gli stessi che ti ritrovi anche nella vita quotidiana e lavorativa?

Sì, e sono proprio quelli che ci fanno sentire sbagliati. Quando siamo in mezzo alle persone e ci sentiamo diversi, cominciamo a sentirci noi inesatti. Temo che questo sia per i giovani un problema che vivono ogni giorno. Eppure, tanti ragazzi mi scrivono dopo aver visto lo spettacolo, il che è per me un miracolo. Trovarsi ragazzi di vent’anni in sala che ti aspettano fuori al teatro invece di fare le cose che normalmente fanno i loro coetanei significa molto per me. I ragazzi oggi non sanno a chi rivolgersi, i loro punti di riferimento sono sempre meno e sempre meno visibili. A chi dice di voler fare l’influencer, io rispondo che ce vuless ‘o vacciner!

Sei tornato in teatro insieme a una compagnia dopo diversi anni.

Sì, e questo perché bisogna dedicare molto tempo a uno spettacolo come questo, per come lavoro io. Portare in scena “Mostri a parte” non è stato facile, perché quando lo raccontavo non ho incontrato subito qualcuno che mi dicesse: “Sì, facciamolo”. La sua ideazione risale a quattro o cinque anni fa.

Cosa significa per te far ridere il tuo pubblico?

Quando sento la sala che ride, godo, e più tutti ridono, più voglio farli ridere. Quel che conta però alla fine è che tornino a casa con una riflessione. Sono convinto che la risata sia un’apertura dell’anima oltre che della bocca, un modo per dire “mi apro ad ascoltare cosa hai da dire”. In questo spettacolo nel finale faccio un piccolo monologo, breve ma intenso, in cui esprimo il mio pensiero, e il pubblico mi applaude ache se il mio non è un pensiero facile. Anzi: è impopolare. Una signora mi ha detto “grazie per lo ‘schiaffone’ che ci hai dato”.

Il tuo rapporto con il pubblico è cambiato negli anni?

No, e sono fortunato perché il mio è un pubblico eterogeneo. È composto sia da persone affezionate che da anni mi seguono e che mi fermano per strada, sia dai ragazzi di vent’anni. Ed è sempre stato così. Le nuove generazioni alla fine attingono dalla comicità delle generazioni precedenti. In compagnia ad esempio c’è Fabio Balsamo che fa parte dei The Jackal. Ecco, i fan dei The Jackal sono innanzitutto ammiratori miei. Tuttavia, il pubblico ha perso la capacità di capire il talento e, soprattutto, sembra disprezzare la vecchiaia. L’esempio perfetto è quello dei film di Spiderman, il mio supereroe preferito. (Sono un grande appassionato della Marvel: quando Stan Lee è morto è come se avessi perso un nonno). Ebbene, nel primo film di Spiderman, lui è un ragazzotto nemmeno molto bello, e zia May è una deliziosa vecchina. Mi piacque moltissimo. Nel secondo film zia May è invece una signora di cinquant’anni ancora piacente, e Spiderman comincia a diventare più belloccio. Nell’ultimo film, Spiderman è un ragazzino, e la zia è una bellissima single trentacinquenne. E i vecchi? Cosa facciamo di una società che vuole dimenticare gli anziani? Nella vecchiaia c’è l’esperienza, la possibilità di imparare cose che non sai. Ai giovani manca il contatto con i vecchi. Questo è il messaggio che cerco di mandare.

Quali sono i modelli ai quali fai riferimento?

Sicuramente mio padre Antonio Casagrande mi ha trasmesso la sua eleganza innata. Io credo di essere un attore mai volgare, anche per l’esempio di mio padre, che definisco un attore “inglese”. Per cui anche quando esagero, sto attendo a non passare mai la linea. Questo perché ho un istinto che mi porta a fermarmi, e a non strafare e sembrare poi volgare. I miei riferimenti poi sono tanti, perché io sono tutto e niente: Maurizio Casagrande è un po’ il miscuglio di tante passioni. Io sono un attore, però sotto sotto resto un musicista. Quando scrivo degli spettacoli, scrivo anche tenendo contro degli equilibri musicali.

Tutti conoscono il Casagrande attore, eppure non tutti sanno che tu in realtà sei innanzitutto un musicista.

Assolutamente. Nel mio spettacolo c’è un personaggio che credo non sia mai stato portato in scena prima. E’ il fantasma dell’opera, che altro non è che una pianista, a cui ho fatto mettere una keyboard appesa al collo, così da muoversi agevolmente sul palco. Lei comunica con me tramite le canzoni, diventando di fatto la colonna sonora vivente dello spettacolo, che interagisce con gli attori e le situazioni. Ancor prima di stendere il copione, quando lo spiegavo a voce nessuno mi capiva, finché non l’hanno visto rappresentato in scena. Si tratta certamente di un’innovazione che viene proprio dalla mia passione per la musica, la quale, oltre che essere un esercizio tecnico ed espressivo, è anche una forma mentis. Una passione che coltivo da ragazzo, e a cui mi dedico quando posso. Nasco come batterista, ma suono anche il pianoforte, la chitarra e il basso elettrico. Sono un polistrumentista, ecco perché io non conosco la noia. Anzi, non ho mai tempo, perché il tempo libero che ho a dispozione lo passo sempre a suonare. Le passioni te le insegnano le conoscenze, le persone. Non sono laureato, non ho neanche il diploma, sono arrivato all’ultimo anno perché ero “esploso” nella musica, e passavo tutto il mio tempo al conservatorio. Ho sempre avuto una grande difficoltà con la storia. In un certo momento della mia vita, decisi di prendermi il diploma seguendo una scuola serale. Lì incontro un signore che insegnava storia. Il modo in cui la raccontava mi ha fatto appassionare a tal punto che mi sono andato a leggere tutti i libri di storia che avevo a disposizione. Quell’uomo mi ha acceso la passione per quella materia grazie al modo in cui me l’ha espressa, quando fino al momento prima di incontrarlo mi annoiava. La passione te la insegna soltanto un altro, come a me è accaduto con il teatro, ma in me è nata prima quella per la musica.

Nasci dunque come musicista: poi cosa è successo? Cosa ti ha spinto a diventare attore?

Questo mestiere mi ha letteralmente rapito. Ho avuto la capacità di capire, cosa non facile. Non sempre siamo capaci di riconoscere quali sono le nostre inclinazioni, certe persone perdono la vita intera dietro cose in cui non sono realmente portate, senza mai conoscere la propria vera natura. Io per fortuna l’ho capito in tempo. Mi sono reso conto che riuscivo con grande facilità in questo mestiere. E’ accaduto quando nel corso di uno spettacolo in cui io suonavo la batteria, mi si chiedeva di tanto in tanto di fare qualche battuta di varietà. Quando entravo in scena come attore la platea intera rideva. Fu così che tutti cominciarono a dirmi “ma tu devi fare l’attore”. All’epoca mio padre aveva una scuola di recitazione dove io insegnavo solfeggio. Era un ambiente di tutti ragazzi giovani, della mia età, con i quali strinsi tanti bei rapporti. Anche loro mi iniziarono a dire di intraprendere la carriera della recitazione. Così d’improvviso mi trovai in tournée: fui scritturato nella compagnia “Gli ipocriti” di Nello Mascia, tra l’altro anche con un bel ruolo. Avevo poca esperienza alle spalle, fino a quel momento avevo solo recitato con Massimo Perez.

Che ruolo ha giocato tuo padre Antonio nella tua scelta di diventare attore?

Mio padre non mi ha mai spinto a diventare attore. Si guardava bene dal suggerirmi di recitare. All’inizio addirittura non diceva niente, anzi, credevo di non piacergli. Dopo due anni che avevo intrapreso questa strada, mi scrisse una lettera in cui mi diceva “sei talmente bravo che non puoi non recitare”. Lui per affermarsi ha sofferto tanto e ha dovuto molto faticare, per cui in un primo momento voleva preservarmi dai dolori del mondo della recitazione. Ai miei esordi, poi, ho fatto un grande lavoro per allontanarmi da mio padre. Forse anche per orgoglio e presunzione, non volevo e non potevo fare una vita da attore “figlio di”. Per cui ho voluto condurre una carriera completamente lontana dalla sua. E ci sono riuscito: moltissime persone scoprono la parentela ancora oggi, e d’altronde, adesso non ho nessun motivo per non farlo sapere. Quando recitavo nella ficition “Carabinieri”, la produzione aveva bisogno di un attore che interpretasse mio padre, così consigliai proprio lui. Negli anni precedenti non avrei mai pensato di fare una cosa del genere.

Che rapporto c’è oggi tra di voi?

Bellissimo. Lui si fida molto della mia visione dello spettacolo, e oramai si fa dirigere da me, già da quindici anni a questa parte, compresi tutti e due i film che ho diretto, “Una donna per la vita” e “Babbo Natale non viene da Nord”. Lui è un attore nel senso più puro del termine, per cui ha bisogno di essere diretto, a differenza mia che subisco un po’ la direzione altrui, a meno che non si tratti di una persona di cui mi fido molto. La situazione tra di noi nel tempo si è ribaltata, e non posso che esserne felice.

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