Pnrr, ritorno al passato

Il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sta diventando un vortice nel quale rischia di essere travolta non solo la politica economica nazionale ma tutta la programmazione che gli ultimi tre governi, succedutisi alla guida della nazione, hanno fin qui elaborato. Sarà bene ricordare al lettore che il “Piano” è stato abbozzato dall’ultimo esecutivo di Giuseppe Conte, perfezionato, in seguito, da quello di Mario Draghi ed ereditato, infine, da Giorgia Meloni. Il tutto è nato dal combinato disposto dell’offerta fatta dall’Unione Europea agli Stati membri, e accettata dal nostro Paese, di un maxi finanziamento (in parte a fondo perduto e in parte da restituire, a partire dal 2050), di una cifra che, nel nostro caso, ammonta a oltre 200 miliardi di euro. Scopo di questa cospicua somma: rimettere in sesto le economie nazionali a vario titolo prima “ingessate” dalla vicenda Covid e successivamente messe in ginocchio dalla tempesta scatenata dalla guerra in Ucraina.

Il Pnrr prevede il varo di progetti legati a tutti i settori dei servizi e delle infrastrutture per il recupero di efficienza e di ammodernamento di taluni ambiti nevralgici d’intervento. Su queste stesse colonne stigmatizzammo la circostanza che, seppure con i migliori propositi, Roma, pur di accaparrarsi una buona fetta di quelle risorse, aveva ecceduto nella progettualità, perdendosi anche in modelli relativi a opere di levatura ed interesse del tutto estranei alla dimensione nazionale. In parole povere: si erano previsti interventi per programmi di valenza locale che, alla fine, hanno assorbito non solo fondi ma anche tempo per la loro preparazione. Una parcellizzazione nella quale i “locali” hanno negato priorità e dedizione a disegni con obiettivi di più vasto respiro creando, in tal modo, ritardi generalizzati per le opere più necessarie fino ad appesantirne il rispetto della tempistica imposto da Bruxelles. Al contempo si è finito con il caricare sul debito statale gli ulteriori oneri futuri. Fatto grave allorquando quella parte di spesa dovrà poi essere restituita.

Come ogni debito, infatti, esso comporterà interessi passivi che si andranno ad aggiungere alla già enorme mole del deficit esistente, con un ulteriore aggravio della spesa e del regime della futura tassazione che andrà ad accollarsi ai contribuenti. Tuttavia non c’è stata alcuna resilienza politica e tutto ha finito col confondersi nel mare magno della mancanza di decisioni e della solita ambiguità di uno Stato che non riesce a darsi un modello di sviluppo capace di abbandonare le pastoie e gli sperperi dei monopoli statali e dei conseguenti privilegi. Risultato: nonostante gli sforzi e le polemiche insorte per i ritardi di consegna dei progetti esecutivi e l’inizio dei lavori (per poter incassare la prevista tranche del finanziamento), il futuro resta ancora avvolto nella più profonda indeterminatezza. Purtroppo i guai hanno sempre come corollario altri guai e credo che pochi si siano accorti che quelli declinati dal guaio principale siano di natura ancora peggiore.

Per poter accelerare le fasi di appalto, l’inizio dei lavori e tutto quel che occorre per incassare la parte prevista del finanziamento, è stata infatti avvalorata l’ipotesi di poter rivedere il piano, cercando di… esternalizzarne i lavori quanto più possibile affidandoli alle società partecipate! Insomma: il rischio è che si torni al vecchio andazzo “pubblico” che tanti danni e tanti debiti ha fatto accumulare fino a quando non si sono soppressi alcuni di quegli enti cosiddetti “inutili”. Per capirci: la settimana scorsa il ministero dell’Economia ha comunicato i nomi prescelti per le posizioni apicali. Tale tendenza ha trovato addirittura una sorta di ufficializzazione nella composizione della “cabina di regia” a cui sono stati chiamati a partecipare, oltre ai ministri, anche le società attive nel settore energetico (Eni, Enel, Snam e Terna). Più in particolare, sembra che Poste dovrà occuparsi di una parte dei programmi per la digitalizzazione della PA mentre la parte del Pnrr relativa ai trasporti sarebbe, nei fatti, già stata subappaltata a Ferrovie dello Stato. Tradotto in soldoni: siamo al cospetto della solita, vecchia orgia statalista che negherà tutti gli enunciati di rilancio del libero mercato di concorrenza, nonché dell’efficienza e del buon rapporto tra costi e benefici.

Questi ultimi da sempre sono stati ritenuti parametri del tutto trascurabili dallo Stato imprenditore e fonte dei mostruosi disavanzi accumulati dai governi nel corso dei decenni. Ora, se così sarà anche con il centrodestra a palazzo Chigi, uno schieramento che pure ha sempre predicato il liberalismo politico ed il libero mercato di concorrenza, allora significherà la parificazione e l’omologazione di Meloni e compagni con tutti gli esecutivi a vocazione cripto socialista e statalista che li hanno preceduti. Tanto è pericoloso anche per l’immagine del Paese oltre che per le tante società, italiane ed estere, che potrebbero aspirare a partecipare ai bandi e che invece rischiano (o temono) di vederli disegnati su misura per i colossi di Stato. Il tutto con buona pace delle dichiarate “buone intenzioni”.

*già parlamentare
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