Sindrome cinese

Lo Statalismo rompe il nesso etico tra ricompensa e merito. Con questa espressione, un grande politico ed economista italiano, don Luigi Sturzo, evidenziava come ogni impresa messa nelle mani dello Stato non potesse che produrre dissesto economico. Parliamoci chiaro: se la ricompensa, ovvero il guadagno, non è legata al merito, ovvero alla qualità ed alla quantità del lavoro svolto, si sovverte una delle principali basi morali e fattuali della libera impresa e con essa il raggiungimento di un utile oppure del buon fine che l’impresa stessa si è prefissato. Sembrano idee economiche complesse, queste, eppure sono fatte di buon senso e semplice logica pratica. Uno Stato che, il più delle volte, paga i propri dipendenti per la sola giornata di presenza, non può competere in efficienza e produttività. Ne consegue che preferisce agire in regime di monopolio, assicurandosi, in tal modo, i clienti in forza di legge ed a prescindere dalla qualità del servizio reso. Insomma, in nome dello Stato, la mancanza di profitto fa ritenere etico anche lo spreco del pubblico danaro, che poi si traduce nell’accollare ai contribuenti le perdite prodotte. D’altronde, mancando lo stimolo per migliorarsi e vincere la concorrenza, non ci si può che cullare sulla valutazione auto referenziale con la quale si giudicano i risultati e si giustificano le perdite che poi tocca ai cittadini ripianare sotto forma di tasse. La mancanza del profitto nelle aziende statali autorizza implicitamente una condotta capace di produrre “debiti” e quindi essere gestita con criteri oggettivamente politico-clientelari. In casi del genere, non sono più le regole dell’impresa a guidare l’azienda, ma quelle della convenienza politica, in assenza di responsabilità imprenditoriali e con l’alea di incorrere nel dissesto finanziario. Viceversa, tutto quel che nelle mani di un privato produce un legittimo guadagno, porta la gente, ignara oppure ignorante, a giudicare chi lo produce, come un “profittatore”. Il debito fatto dalle aziende di Stato diventa normalità, per una dichiarata superiorità morale delle finalità aziendali, nel mentre nelle aziende private il profitto si considera un risultato particolare, privo di finalità sociali, da tartassare, dunque, mungendo la ricchezza prodotta, sotto forma di gabelle. Questa innanzi narrata è in breve la storia delle Partecipazioni Statali e della montagna di debiti da queste prodotta nel nostro Paese. Lo stesso criterio spesso si applica a quella parte dell’imprenditoria privata italiana assistita e finanziata dallo Stato medesimo, con l’uso degli ammortizzatori sociali. In sintesi, nel paese di Bengodi a forma di stivale, lo Stato contrae debiti ed il privato assistito privatizza il profitto e pubblicizza costi e perdite. Questa la storia industriale in Italia, ove il liberalismo economico è di sola facciata ed il socialismo è realtà di sostanza. Sia ben chiaro che questi rilievi in nulla tolgono allo Stato il diritto-dovere di esercitare una funzione regolatrice del libero mercato ed anche di controllare settori indispensabili alla Nazione, sottraendoli all’eventuale speculazione privata. Tuttavia è deprecabile il come si realizza questa funzione statale, di mancato controllo e di pessima gestione. L’obiettivo è il potere elettorale, l’uso dei monopoli statali, se non vi si aggiunge, sottobanco, il lucro finanziario destinato ai partiti, come la vicenda Enimont ha dimostrato negli anni Novanta del secolo scorso. In fondo la maxi tangente che diede origine al processo politico e giudiziario denominato “Mani Pulite“ altri non era che un’aliquota ricavata dal ritorno nelle mani dello Stato della produzione chimica di Eni e Montedison svenduta, qualche tempo prima, a Raul Gardini. Cosi è stato per tante altre aziende pubbliche prima svendute perché passive, e poi riacquistate. Tra queste la Cirio Buitoni, Aeroporti di Roma, Alitalia, Enel, Eni e le Acciaierie, prima svendute ai Riva poi al nuovo proprietario, il colosso indiano Arcelor Mittal. In questi ritorni nelle originarie proprietà statali si sprecano miliardi, sia quando ce ne vogliamo sbarazzare, sia quando le riacquistiamo a costo normale al netto degli utili che queste, negli anni, hanno fruttato in regime di monopolio gestito dal privato. Oggi tocca alle Autostrade. Quindi a Mario Draghi, più statalista di D’Alema che se ne disfece negli anni ‘90 perché eravamo sull’orlo della bancarotta (lo spread era a 600 punti base). La gestione politica produce debito e quindi si svende, salvo riacquistare, più o meno, allo stesso prezzo. Ecco la dinamica con la quale vent’anni fa le Autostrade furono cedute ai Benetton. Piccolo particolare, quello dei guadagni maturati nel periodo di gestione privato: poco meno di 4 miliardi annui, dei quali oltre l’80 per cento ricavato dai pedaggi. Moltiplicate dal 2003 ad oggi, ed avrete gli incassi totali sui quali calcolare i guadagni. Un’altra pietra miliare, insomma, nella scandalosa storia dello statalismo italiano e dello sperpero di denaro. Gente del calibro di Ciampi, Dini, Monti, Draghi, tutti economisti di scuola liberale, sedicenti emuli di Luigi Einaudi, immersi nel sistema politico si sono ritrovati a fare gli statalisti. A casa nostra vince, da oltre mezzo secolo, la sindrome cinese del social-capitalismo.

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