Eutanasia, altro che buona morte

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

Eutanasia. La parola ha in sé ha un’etimologia fuorviante. Significa, dal greco antico: “la buona morte”, Tuttavia, a ben guardare, non è proprio così in quanto la morte non è mai da ritenere un evento “bello”, da preferire alla vita, anche quando questa giunge al termine magari al culmine di una condizione particolarmente grave o fortemente invalidante. In uno stato di diritto la morale pubblica risiede nella legge, affermava il filosofo Hegel, perché l’osservanza della legge, ispirata a sentimenti di opportunità, giustizia ed equità sociale, è l’unica condizione che ci esime dall’immoralità pubblica, oltre a conformare i nostri comportamenti al bene comune. Se la morale personale, il convincimento soggettivo, sopravanza l’etica pubblica, allora il tessuto sociale si disgrega e vira verso forme di anarchia. La libertà ed il principio di autodeterminazione sono valori essenziali nelle società aperte e liberali, ma non possono né debbono declinare verso forme che non coniughino la responsabilità e con essa il principio di essere esercitate in quanto assoggettabili a finalità che non contrastino con il contratto sociale, quello che contraiamo alla nascita diventando membri del corpo sociale. Nel caso dell’eutanasia non si tratta di esercitare uno dei tanti diritti che ci vengono riconosciuti e garantiti dalla Costituzione (e dalle norme che da essa promanano), quanto di un diritto soggetto ad una più ampia valutazione che tenga conto del valore sacro e fisiologico della vita. In disparte il valore trascendente che i credenti danno alla vita come creazione divina, e che in questo caso verrebbe oltraggiato dagli uomini che si arrogano il diritto di stabilirne la durata, così come accade con l’aborto, sulla base di una valutazione pratica contingente, se non egoistica. Preferisco imboccare, in questa sede, una strada più laica e razionale. La legge che di recente ha approvato la Camera dei Deputati, ora all’esame del Senato, ha ampliato le facoltà dei cittadini di poter disporre il proprio fine vita, come se darsi la morte fosse la rivendicazione di una qualsivoglia prerogativa personale. Ancora peggio se la legge viene prospettata come espressione di un’emancipazione sociale, di un passo in avanti che è tipico delle società più progredite, liberate dall’obbligo di dover rispettare vincoli  che sono naturalmente nelle disponibilità degli individui. Insomma, secondo questo dettame, potersi dare la morte sarebbe espressione di uno Stato che si adegua inerme e supino al relativismo etico ed accondiscende ai desiderata dei propri cittadini. Se questo fosse vero se ne dovrebbe dedurre una vera e propria rinuncia a difendere la vita come principio posto alla base dell’esistenza umana e con essa anche di molti di quei principi etici sui quali lo Stato stesso è stato costruito. Tutte le norme che reprimono la soppressione della vita umana verrebbero moralmente menomate e con esse anche la funzione repressiva degli  omicidi diventerebbe non più assoluta ma relativa, valutata dunque in base alle circostanze. Certo non ci troviamo, qui, nel caso della soppressione violenta e malvagia dell’esistenza. Però un principio cardine verrebbe meno, e come valuteremmo  tutti quei reati nei quali la vita viene soppressa per altre circostanze, come la mancata tutela dei deboli e degli inermi e dei non autosufficienti. Potrebbero essere moralmente giudicati con la stessa severità la perdita di vite dovute agli atti preterintenzionali, all’imperizia e ad altre cause non violente e malvagie? Se cade il baluardo del rispetto della vita, il relativismo etico toccherà il suo apice e tutti potranno chiedere di conformare la legge alle casistiche che ritengono moralmente giuste per concedere la bella morte. Molti credono che con l’eutanasia si compia un gesto umanitario, un atto di carità verso chi soffre ma questo è già previsto dalla legge sulle cure palliative, antalgiche ed il divieto di accanimento terapeutico. Perché allargare questo orizzonte allora se non per decretare che chiunque possa decidere di porre fine ad un’esistenza disagevole e limitata come se la scomparsa di un individuo non dovesse interessare a quella società che lo ha accudito, istruito e protetto nel corso della sua vita? Per paradosso è proprio allo Stato che si chiede di intervenire per garantire la fine di una vita che è stata al centro delle sue attenzioni per decenni. Nella commedia di Eduardo De Filippo “Mia famiglia” il padre cerca di spiegare al figlio che vuole farla finita, il senso stesso della vita, con queste parole “Io non so perché vivere è meglio che morire ma vedo le formiche che scansano il fuoco di un fiammifero. E’ un istinto naturale il loro perché solo la vita ha un senso, non la morte”. Se un giorno la morte dovesse avere un valore sociale quanto la vita, in cambio della libertà assoluta, l’umanità non avrebbe più ragion d’essere.

*già parlamentare

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