“Fine vita”, quell’articolo del codice penale da abrogare

Raffaele Gaetano Crisileo
Raffaele Gaetano Crisileo

Recentemente ho perso un carissimo amico, per me un fratello. E’ volato al Cielo dopo un dolorissimo calvario durato più di un anno e mezzo a seguito di un brutto carcinoma con svariate metastasi. Il suo trapasso (il mio amico aveva solo cinquantaquattro anni!) non è stato affatto dignitoso : Rosario, questo il suo nome, ha reso la sua anima al Signore tra dolori atroci e immense sofferenze senza avere più un minimo di dignità esistenziale. Tutto quello cui ho assistito mi fa fatto porre dei problemi, morali e giuridici insieme, sull’eutanasia di un malato terminale in stato di irreversibilità di una malattia. Mi sono reso conto di condividere in pieno il dubbio di costituzionalità che è stato sollevato da un magistrato di una Procura della Repubblica d’Italia: esso si inserisce in un dibattito sul “fine vita” che impegna ormai da tempo la dottrina e la giurisprudenza. I punti fondamentali della questione del “fine vita” sono principalmente la capacità del soggetto di esprimere ampiamente e con libertà la propria volontà e poi il confine tra due concetti fondamentali : il primo è quello del rifiuto del trattamento sanitario e il secondo è quello quello di eutanasia e/o di suicidio assistito.

Il problema centrale è quello di verificare se, in ipotesi in cui non sia sufficiente il rifiuto di un trattamento sanitario per causare la morte, si possa configurare un diritto al suicidio. Credo che il punto di partenza del nostro discorso sia appunto il concetto di dignità della vita, della persona umana. Secondo il mio punto di vista “diritto alla vita” non significa solo tutela della persona umana, a prescindere dalla sua volontà, tanto da costringere chi, a causa delle sue condizioni irreversibili di salute, ritenga che la sua vita non sia più dignitosa a doverla comunque proseguire, così trovandosi nella condizione di essere “libero di non essere libero”.

Credo che il diritto di decidere di porre fine alla propria vita, alla propria esistenza, quando le proprie condizioni di salute non la rendono più umanamente dignitosa e accettabile – perché si versa in uno stato di irreversibile di malattia tra atroci sofferenze – sia un sacrosanto diritto della persona che la dottrina riconosce da tempo.

Nei diversi ordinamenti giuridici del mondo, inizia ad affermarsi un diritto ad una morte dignitosa; quel diritto entra poi nei diversi ordinamenti e dunque si tratta di un fenomeno riscontrabile anche con riferimento all’ordinamento italiano.

Per il nostro ordinamento, “in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente”. In sintesi, dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo consegue un diritto, che deriva dall’articolo 8 della Convenzione, a scegliere sul “fine vita”, ossia un diritto a porre fine alla propria vita quando non la si consideri più degna di essere vissuta, ovvero non la si consideri più dignitosa. Tutto ciò a fronte di una nostra disciplina nazionale che non riconosce il diritto a porre fine alla propria vita e quindi, secondo noi, si pone in contrasto con l’articolo 8 della Convenzione, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Ma la violazione delle norme Cedu costituisce un vizio di legittimità costituzionale per violazione dell’articolo 117 della Costituzione, che impone alla legge il rispetto degli obblighi internazionali, così come affermato costantemente dalla Corte costituzionale a partire dalle sentenze gemelle 348 e 349 del 2007.

In un quadro del genere indubbiamente noi vediamo la illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale per violazione dell’articolo 8 della Cedu, nella parte in cui non esclude la punibilità di colui che abbia agevolato il suicidio per i casi in cui lo stesso si configuri come un diritto, in ragione di condizioni di vita ritenute non più dignitose.

Ebbene, pensiamo che l’articolo 580 del codice penale sia illegittimo, oltre che per violazione degli articoli 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, così come è stata correttamente sollevata l’eccezione di anticostituzionalità, anche per violazione dell’articolo 8 della Cedu (e dunque indirettamente dell’articolo 117 della Costituzione).

Ma, a nostro parere, vi è un ulteriore, autonomo, profilo di illegittimità dell’articolo 580, in quanto esso si pone in contrasto diretto con l’articolo 3 della Costituzione. La persona che è in condizioni di malattia irreversibile, la quale compromette la dignità della vita, è discriminata rispetto a chi può porre fine alla vita stessa con il semplice rifiuto delle cure. Dunque il diritto alla vita non rappresenta, come abbiamo visto, un limite all’autodeterminazione del paziente. Orbene il discrimen non può essere rappresentato dalla sufficienza dell’interruzione di un trattamento salvavita (che, peraltro, comporta comunque la necessità di una sedazione e, dunque, di una collaborazione da parte del personale medico) o, invece, della necessità di somministrare un farmaco che induca la morte.

L’articolo 580, dunque, in un’ottica del genere, è incostituzionale perché contiene una disciplina che contrasta con i principi della Costituzione.

Ma vi è di più! La violazione del principio di ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Carta Costituzionale rileva anche sotto diverso profilo. Vi è, infatti, un’ulteriore discriminazione tra coloro che possono autonomamente recarsi in un Paese straniero, quale ad esempio la Svizzera, dove il suicidio assistito è ammesso dall’ordinamento, e coloro che, di contro, in ragione di un’autonomia ormai compromessa, necessitano di un aiuto. L’articolo 580 assimila quindi, sotto la medesima disciplina, situazioni che, per la loro diversità, la Costituzione imporrebbe di trattare in modo diseguale. In conclusione riteniamo che, quando la scienza medica può rispondere a certe esigenze dell’essere umano, il tentativo di un singolo Stato di limitarne la fruizione sul proprio territorio diviene molto problematico per cui ci auguriamo che siffatto discrimen venga eliminato al più presto con una rapida pronunzia della Corte Costituzionale sul punto.

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