Il popolo dei conservatori

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

La politica, come altre cose nella vita, vive di mode e messaggi che poi diventano patrimonio comune tra la gente. Secondo la tesi coltivata dai liberali, la storia dell’umanità è fatta di eventi inintenzionali, vale a dire di cause impreviste che si fanno beffa degli storicisti, ovvero di coloro i quali pensano di poter programmare ed organizzare l’esistenza degli individui e della società. Un idea fallace e spesso tragica, quest’ultima, che assegna allo Stato il compito di poter prevedere e determinare gli esiti, i bisogni, le aspirazioni e le inclinazioni di ciascun cittadino confezionando, per lui, un modello di “cosa pubblica” infallibile e pre-determinata.

Da questa fatale presunzione prende il via l’alacre e continua ricerca di un progetto di società massificata ed etero diretta, ancorché in nome di un ideale di giustizia sociale: una sorta di paradiso in terra che, alla fine, si rivela solo un più che rispettabile inferno. Viene così esclusa ogni diversità costitutiva degli esseri umani, si finisce, infatti, col pensarli uguali ed in quanto tali, irregimentati in un sistema politico economico e sociale che consegna al cosiddetto “apparato” il compito di realizzarne bisogni ed aspirazioni dei governati. Il fascino del socialismo e delle società rese perfette ha illuso tantissime persone sulla possibilità di poter prevedere quale fosse il sistema ideale in grado di poter garantire questa demiurgica impresa.

Che tutti siano egualmente felici entro parti uguali pre confezionate dal predominio della programmazione statale, oppure dal governo dei migliori, ha rappresentato il canto delle sirene per molti e per molti anni. Tuttavia la realtà è diversa ed è figlia anche della variabilità degli eventi umani, oltre che della bio diversità degli individui, fattori, questi ultimi, che possono consentire allo Stato solo la possibilità di poter garantire l’uguaglianza delle opportunità, non certo quella degli esiti. Uguaglianza di diritti e l’indisponibilità dei medesimi a qualsiasi forma di potere, libertà di espressione e di sviluppo dei talenti personali, obbedienza alle leggi ed alla morale che le ispira, si presentano come gli unici criteri che possono essere affidati e garantiti dal potere centrale.

Ogni qual volta si cedono a quest’ultimo ulteriori prerogative, infatti, lo Stato può realizzarle solo attraverso la forzosa obbedienza a regole e poteri uniformi ed immaginati giusti in egual misura per tutti. Facoltà limitate esercitabili dentro limiti di uno Stato oppressivo, onnisciente ed onnipotente. Dal secolo dei lumi in poi, con l’avvento della rivoluzione francese e della trimurti “libertà, uguaglianza e fratellanza”, in Europa prima e poi nel mondo i socialisti e gli statalisti hanno diffuso il falso paradigma che l’uguaglianza fosse il fine ultimo da raggiungere e che questa si sovrapponesse all’idea di giustizia. Un tragico errore che, laddove è stato realizzato, ha determinato governi tirannici e liberticidi che dovendo realizzare l’uguaglianza ad ogni costo hanno cancellato la diversità umana, appiattito intelligenze, piegato la volontà allo scopo generale.

Nel Belpaese da più di un secolo si diffondono queste tesi, confidando che sia lo Stato ad avere in mano il bandolo della matassa, gestendo in regime di supremazia, oppure di monopolio, le principali imprese, i servizi e le infrastrutture. Si è accreditata la tesi che gli stessi servizi pubblici, in quanto tali, dovessero essere gestiti dallo Stato, quindi cancellando la concorrenza e la meritocrazia, l’economicità e l’efficienza, in quanto incompatibili con il principio di programmazione e di gestione statale. Corollario di questa idea era il discrimine, la valutazione, che un servizio statale, in quanto privo di profitto, ovvero di utili economici, fosse da preferire alla libera impresa lucrativa, quasi che lo Stato avesse una superiore etica dei fini da raggiungere mancando il profitto. Purtroppo laddove manca il profitto si realizzano perdite, ovvero debito pubblico, da accollare, parcellizzandolo, all’intera comunità amministrata sotto forma di tasse e balzelli. Questi ultimi avviliscono oltremodo la capacità di produrre ricchezza da parte dei cittadini e delle imprese, deprimendo l’occupazione e la possibilità di avere sviluppo economico e sociale.

Viceversa la gestione statale, la burocrazia che la realizza, fanno crescere ostacoli e disservizi e, di conseguenza, le disuguaglianze a carico di quanti non hanno mezzi per acquistare o godere delle opportunità non gestite direttamente dallo Stato. Alla fine il carrozzone statale diventa lo strumento di chi lo occupa politicamente e che lo gestirà secondo convenienza elettorale e questo sarà un altro fattore di debito e di disuguaglianza per quelli che non hanno le amicizie giuste o i santi in paradiso. Occorre quindi cambiare mentalità e comportamenti personali, smettere di pensare che la vita debba essere una continua assistenza dipendente dalla benevolenza dello Stato. Un popolo di conservatori non vivrà mai il progresso e non raggiungerà mai la propria autonoma felicità.

*già parlamentare
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