Il venditore di almanacchi

Vincenzo D'Anna, ex parlamentare

Tra le opere di Giacomo Leopardi spicca una graziosa novella, quella del “Venditore di almanacchi”. Si tratta di un dialogo impostato tra un venditore ed un passante. Il primo, ottimisticamente, si dice convinto che il futuro predica e riservi cose migliori, il secondo, in quanto probabile acquirente, pone continue domande per accertare fino in fondo la veridicità di quelle lusinghiere rivelazioni. Sono passati circa due secoli dal racconto del poeta di Recanati, eppure le cose non sono molto cambiate. E questo nonostante oggi Scienza e Progresso forniscano modelli previsionali nel campo dell’economia, della finanza e dello stato di salute, sempre più precisi ed attendibili. Un tempo, quello attuale, in cui possiamo fare affidamento su un’ampia ed articolata rete di protezione sociale che lo Stato mette a disposizione dei cittadini.

Ogni giorno siamo investiti da una miriade di notizie che consentono a ciascuno di noi di poter guardare al futuro con una quantità di elementi che sono alquanto predittivi per la nostra vita. Tuttavia indulgiamo nella stessa logica dei due personaggi leopardiani  e tanti sono i “venditori” che ci subissano di auguri di ogni genere, ricolmi di frasi stereotipate che inneggiano ad un domani migliore. Si tratta di un generale infingimento, un’abitudine spesso acriticamente votata a recepire gli spot della società consumistica più che contribuire consapevolmente a costruire un nuovo umanesimo. Oserei dire che la diffusione automatica e rituale dei voti augurali origina la banalizzazione dei medesimi, a prescindere da qualsivoglia consapevolezza della vita reale, di quello che affrontiamo tutti i giorni per sopravvivere in un mondo che, spente le luci del battage pubblicitario, si ripresenta con i problemi irrisolti dell’anno precedente. Alla fine ci riscopriamo in accordo con Leopardi allorquando ci dice che “la felicità non è nella vita passata, ma nell’immaginarsi la vita nel futuro migliore di quella passata, nonostante il futuro sia di per se stesso vago ed indistinto”. Se ne deduce che l’uomo che si avvale dei numerosi strumenti predisposti dal progresso, non ha più certezze di quel passante che nel lontano ‘800 interrogava il venditore di almanacchi (e di speranza).

L’uomo cosiddetto moderno, immerso nel relativismo etico e nell’idea che l’era del benessere sia progressiva ed immutabile, rifiuta la negatività, ha terrore della morte, stenta a rendersi realmente consapevole del mondo nel quale vive. In Europa gode di una pace duratura da 70 anni, non soffre di carestie e di epidemie, evita quindi il crogiolo delle tragedie vissute dall’umanità nelle epoche remote, sconvolgimenti che lo riportavano alla radice della umana natura e dalla quale si traevano esperienze e moniti perché l’umanità migliorasse. Ebbene, mancando quel contesto tragico oggi ci stordiamo e ci illudiamo che l’opulenza dei consumi, la qualità e la durata della vita, la riduzione dell’orario di lavoro, siano ritenute acquisite a prescindere da ogni altra condizione politica e socio economica. Da questa erronea percezione della vita nasce la mala pianta dell’abbandono del sapere e dell’istruzione in favore della tecnologia che tutto risolve, la dispersione di un’idea politica che sia da base per il governo della società, dell’economia e dello Stato in generale, l’abbandono del senso critico rispetto ai messaggi consumistici, l’abbandono della consapevolezza che la vita ha contenuti e finalità più profondi del possesso dei generi voluttuari.

Diciamocela tutta: oggi viviamo in un’epoca nella quale tutto è confuso ed approssimativo, in una società liquida che dal passato non trae alcun insegnamento. L’ascensore sociale che ha consentito a varie generazioni di progredire nella società,  portando in alto i più capaci, i meritevoli, i laboriosi, i colti e gli onesti, è ormai fermo. Non sono pochi i figli che svolgono lavori umili e più in basso nella scala sociale rispetto ai genitori. La crisi morde le carni vive delle generazioni contemporanee. Questo dovrebbe destare preoccupazioni e maggiore impegno, ma la massa è convinta che la felicità è garantita ed imperitura. Se questa è la percezione più  diffusa, a chi volete interessino più la scuola ed il sapere? Chi insegue ancora idealità e valori per ricostruire un tessuto politico e nuovi partiti per rinnovare gli strumenti e gli uomini al potere? A chi interessa la solidarietà e l’umanità? Chi è disposto a rinunciare ad un agio, ad un’abitudine consumistica  per salvare l’ambiente che soffoca? In un bel libro di Luca Ricolfi dal titolo “La società signorile di massa” si elencano i fattori perché questa idea si sia potuta realizzare e come si sia sostenuto questo stato di cose dal punto di vista economico e sociale. L’analisi rigorosa dei fattori porta l’autore a dire che non durerà ancora per molto questa forma di egoismo e di leggerezza dell’essere.

Mancheranno, infatti, sia le risorse che le condizioni politiche. Mancheranno il cospicuo risparmio dei nostri avi, la possibilità di non pagare tasse e di governare la Nazione utilizzando dissennatamente la leva del debito pubblico, ovvero debiti da accollare alle future generazioni. Se i nostri giovani continueranno a non studiare nella scuola ridotta all’accoglienza, non lavorare e  risparmiare, non partecipare alla vita politica e sociale, non basteranno i venditori di almanacchi. Comunque sia: auguri a tutti!!

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