Invalsi, l’esattezza non coincide con la verità

Ernesto Paolozzi, docente di Storia della Filosofia contemporanea presso l'università Suor Orsola Benincasa di Napoli

Il sottosegretario all’Istruzione, Giuseppe De Cristofaro, in un’intervista rilasciata a Cronache di Napoli e di Caserta ci ha ricordato che esiste una questione aperta circa la valutazione di scuole, insegnanti e alunni. Penso sia, per tanti aspetti, quella più importante. Non ha nascosto che nel governo vi sono prospettive culturali diverse, come è naturale che sia in un governo di coalizione. Si è detto in parte scettico (mi pare che anche il ministro Lorenzo Fioramonti lo sia) circa la validità del sistema di valutazione adottato dall’Invalsi (l’istituto che misura, o dovrebbe misurare, la qualità della scuola italiana) e, infatti, ha aggiunto che la scuola non deve formare studenti con una grossa quantità di dati in testa ma formare il pensiero complesso. Non a caso il maggior teorico della complessità, Edgar Morin con il quale ho tante volte dialogato, pubblicò un volume di grande successo, ‘Una testa ben fatta’, che riprendeva già dal titolo un aforisma del filosofo del Cinquecento, Michel de Montaigne,“meglio una testa ben fatta che una testa ben piena.”

Sono ormai decenni che si pratica l’idea che è possibile raggiungere una valutazione oggettiva del sapere ma dovunque il sistema della formazione si mostra in regresso. Questa decadenza è dimostrata sia a dar retta alle valutazioni oggettive sia al buon senso, all’intuito che spesso ci guida. Se, è la domanda che ci dobbiamo porre, fra le cause di questa generalizzata regressione ci fosse anche quella di affidarsi ad un metodo di valutazione che al massimo produce teste ben piene ma certo non ben fatte? Sulla formazione di un giovane ha parte rilevante la famiglia, naturalmente, la società nel suo complesso, le condizioni economiche e sociali di provenienza degli alunni. Ma il metodo di insegnamento è fondamentale. Se il metodo è astratto, astorico, acritico come è quello in vigore è difficile che si possa progredire verso un sistema della formazione all’altezza di una società complessa e in rapidissima trasformazione. Noi, se ci va bene, ammaestriamo. Di certo non educhiamo i giovani. Perché, dunque, tanta insistenza? Perché le istituzioni preposte alla valutazione sono ormai carrozzoni clientelari, luoghi di potere? Probabile, ma non è il motivo principale. Mi sembra più cogente mettere in rilievo un pregiudizio ormai antico e in parte giustificato, la presunta propensione di una certa sinistra egualitaria tardo sessantottina (involontariamente alleata con i fannulloni) a non volersi far giudicare, a liquidare come potere borghese ogni forma di valutazione. Non è un caso che i più favorevoli al sistema vigente sono gli ex comunisti, diciamo i preti spretati del cosiddetto riformismo. Scontano un antico complesso. Ma questa è acqua passata. Più perniciosa è la credenza che esista una verità oggettiva, delle risposte esatte, e che il sistema dell’educazione debba conformarsi a quelle verità. Ma l’esattezza e la verità non coincidono.

La conoscenza si costruisce, non si scopre. La verità si fa, non si trova. Non solo tutti i grandi filosofi del Novecento ma anche gli scienziati più importanti, da Heisenberg a Ilya Prigogine, concordano sul negare valore di oggettività a questi criteri di valutazione che per il solo fatto di essere criteri sono soggettivi. Chi stabilisce il criterio per scegliere i criteri? Insomma bisognerebbe superare la mentalità tardo positivista che permea parte della cultura accademica e giornalistica italiana. Valutare sì, dunque, ma con giudizio. Allo stato attuale si rischia di penalizzare i meno abbienti, gli svantaggiati, gli intelligenti e gli innovatori (chiamiamoli pure eccellenze) in favore di un’aurea mediocrità. Altro che meritocrazia.

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