‘Lacrime di coccodrillo’ per Michele Zagaria: dopo la sfuriata il boss piange durante il processo

Il capoclan ha parlato delle presunte pressioni ricevute per farlo 'pentire': "La mia è una collaborazione impossibile, non metto a rischio 50 persone"

Nella foto principale Michele Zagaria, nel fotino in alto Carmine Zagaria, in quello in basso Filippo Capaldo

CASAPESENNA – Prima sbraita, si sbraccia e lancia messaggi. Poi, per dissimulare, inizia a piangere: “Presidente mi fermo qua perché non ce la faccio”. Lacrime di coccodrillo, ieri pomeriggio, per Michele Zagaria. Capastorta Vuole mostrarsi debole, inoffensivo, “depresso”: ma non lo è. Sembra, invece, il frutto di una strategia che lo rende ancora pericoloso, subdolo, nonostante il carcere duro, nonostante gli arresti dei suoi sodali, nonostante i pentimenti e le confische. E il processo dove si è prestato all’ennesima sceneggiata è incentrato proprio su questo: sul fatto che dalle sbarre, attraverso i colloqui con i propri familiari e intervenendo nelle udienze, continua a guidare la cosca (clicca qui per leggere).

L’esame di Chiappetta

Michele Zagaria è tornato a parlare. Ma prima di farlo, il capoclan ha ascoltato l’interrogatorio di Giuseppe Chiappetta, sostituto commissario della polizia penitenziaria. E’ l’investigatore, citato come teste dalla Dda, che ha monitorato ed analizzato i colloqui avuti da Zagaria, quando era detenuto nel carcere di Opera, a Milano, con cognate, sorelle e nipoti. In alcuni casi, ha spiegato il poliziotto, mentre Capastorta parlava con i familiari, venivano tirati in ballo argomenti “non attinenti” al tema principale della conversazione, come quando nel giugno del 2014 con Gesualda Zagaria, Tiziana Piccolo e i suoi due nipotini, iniziò a raccontare di una “lavatrice” che non funzionava.

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Lo show del boss

Concluso l’esame del sostituto commissario, l’imputato, dopo essersi confrontato telefonicamente con il suo difensore, l’avvocato Paolo Di Furia, ha chiesto al presidente Francesco Chiaromonte di poter rendere dichiarazioni spontanee. Incassato il permesso dal giudice, trascorsa una breve sospensione dell’udienza, è iniziato lo show del boss.

Sgrassando l’intervento di Capastorta, in rilievo resta il suo voler ribadire il ‘no al pentimento’. E’ un campanello d’allarme che l’Antimafia non può (e sicuramente non lo fa) sottovalutare. Perché sono frasi che dice nel corso di un’udienza pubblica, perché sono rassicurazioni ‘mascherate’ e dirette ad un sistema (tristemente) ancora forte, perché sono temi che il boss aveva già affrontato (con le stesse modalità) ed è tornato a ripetere.
L’ergastolano ha (ri)tirato in ballo l’intervento che fece nel 2018, in Corte d’Assise, durante il processo per gli omicidi Antonio Cantiello e Domenico Florio avvenuti nel 1996. “Avevano arrestato tutte le mie sorelle così dissi al presidente di togliermi gli avvocati e metterne uno d’ufficio perché non avevo più nessuno da mandare a parlare con loro. E il presidente gentilmente lo fece. E poi mi ritrovo quelle frasi nella richiesta di rinvio a giudizio per 416 bis. In quel processo (il duplice omicidio Cantiello-Florio, ndr.) Francesco Schiavone Cicciariello, pure Nobis, tutti evitarono l’ergastolo ammettendo di aver commesso i delitti. L’unico ad averlo preso sono stato io”. Parole inquietanti, da pesare con attenzione, dette dal padrino quasi gridando, con il classico tono concitato che lo caratterizza. Un pistolotto a tratti sconnesso fatto per marcare differenza con gli altri boss che hanno confessato. Lui, no, ha preferito avere l’ennesimo ergastolo. E’ per tale ragione serve alzare le antenne, tenere la guardia alta.

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“Una collaborazione impossibile”

Il boss ha parlato anche di Chiappetta: “E’ stato gentilissimo, è una persona squisita” che ha incontrato in tre occasioni. “La prima con il dottore Maresca (Catello, il pm che ha coordinato le operazioni della sua cattura, ndr.), la seconda con Maresca e il dottor Giordano. Nella terza mi notificò l’ordinanza cautelare per l’omicidio di Antonio Bamundo. Quando uscì dall’ufficio matricole, ci vedemmo in un’altra stanza e, non so neppure se devo raccontarlo, lui mi disse: “‘Ma perchè non togliamo da mezzo questa frizione…’. Ad un certo punto entrò il coordinatore delle guardie e aggiunse: ‘Ma perchè non inizi a collaborare?’ Presidente – ha detto rivolgendosi al dottor Chiaromonte – ma è modo di fare questo?”.

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Nel corso dell’intervento, Zagaria ha accostato il suo permanere “nell’area riservata”, un tipo di carcerazione più duro del 41bis, proprio alla scelta di non pentirsi: “Io spontaneamente non voglio farlo. La mia è una collaborazione impossibile. Ho una famiglia di 50 persone. Non posso metterle a rischio. Ho sbagliato io. Alle mie sorelle ho tolto solo, da me non hanno avuto nulla”.

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Pericolo scarcerazioni

Il processo a carico del boss, accusato di associazione mafiosa, proseguirà a dicembre. Nei prossimi anni, pezzi da novanta del clan usciranno da galera. E’ già libero (con obblighi) Carmine Zagaria, fratello di Michele. A breve lascerà la prigione pure il nipote-delfino di Capastorta, Filippo Capaldo. E intanto il boss persiste nel far sentire la propria voce, rassicurando chi è già fuori e chi uscirà. Il clan dei Casalesi, come hanno più volte ripetuto i pm dell’Antimafia, non è stato sconfitto, anzi, la strategia del silenzio che ha adottato negli ultimi anni è sintomo del proprio ‘stare bene’. Continua a beneficiare dei soldi investiti, grazie a colletti bianchi insospettabili (in Italia e all’estero), aprendosi anche a business fino a qualche tempo fa ritenuti ‘indegni’ (come lo smercio di droga).

I messaggi di Capastorta

Le parole che ieri Michele Zagaria ha riversato in udienza possono avere due chiavi di lettura: la prima è quella del ‘dominio’. L’ondata di pentimenti ha scombussolato l’organizzazione mafiosa. Da diversi anni la ‘cassa comune’ è bloccata. E se Capastorta dice, per la seconda volta, di voler mantenere fede al patto di omertà stretto è per rinsaldare la propria leadership (dominare) e dare garanzia (proteggere) a chi ha fatto con lui affari. La seconda è quella della ‘trattativa’. Ripete, quasi ossessivamente, le pressioni che avrebbe ricevuto tese a farlo collaborare perché, sotto traccia, vorrebbe realmente ‘farlo’, come aveva ipotizzato in una lettera inviata da Opera alle sorella Beatrice. Agli investigatori decifrare le mosse del padrino.

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