Lavoro e salute: diritti paralleli

Ernesto Paolozzi, docente di Storia della Filosofia contemporanea presso l'università Suor Orsola Benincasa di Napoli

Lentamente e forse nemmeno troppo lentamente, l’angoscia che l’epidemia da coronavirus provoca, si sta affiancando all’angoscia per la crisi economica e sociale che l’emergenza sanitaria sta producendo. La prima contraddizione che è venuta alla luce in queste ore è quella che pone la salute dei lavoratori in contrasto con la produttività delle aziende, di quelle aziende che ai lavoratori danno lavoro. E’ come se il dramma della città di Taranto con la sua mega fabbrica, l’Italsider, tormentata fra la tutela del diritto (e la necessità) del lavoro e il diritto alla salute, si fosse esteso all’intera Italia, all’intero mondo. Una contraddizione dalla quale non è assolutamente facile uscire. Francamente non so immaginare una soluzione per l’immediato. Guai a travolgere anche questo dramma nella polemica da social fra fautori dell’ambiente (in questo caso della salute come bene primario per così dire ecologico) e fautori della produttività preoccupati per le conseguenze economiche e sociali di una così drastica diminuzione dell’attività lavorativa. Certo, per il futuro sarebbe possibile immaginare un nuovo modello di sviluppo che possa tenere insieme il diritto alla salute e quello al lavoro e alla libera iniziativa imprenditoriale. Diritti, peraltro, garantiti dalla nostra Costituzione. Ma garantiti prima ancora dal buon senso e dalla comune umanità.

Per il futuro immaginando una nuova concezione del lavoro stesso in rapporto al profitto come da anni cerco, insieme a tanti altri, di proporre. Può darsi, giusto per diffondere un po’ di ottimismo, che la crisi che stiamo vivendo possa accelerare questo processo di vera modernizzazione della società, liberarci da opposti ideologismi e fanatismi a destra come a sinistra e renderci consapevoli che un modello socioeconomico è al tramonto ed è necessario inventarsene un altro. Qualcosa, qui in Italia, è già successo: l’accelerazione del lavoro agile, della digitalizzazione di aziende pubbliche e private, di istituzioni generalmente molto lente nell’accogliere novità come la scuola e l’amministrazione della giustizia. Non che il telelavoro, il lavoro in remoto da casa possa sostituire il lavoro tradizionale ma certo ad esso si può affiancare. Per il futuro, ma per l’oggi la situazione va affrontata con provvedimenti drastici, emergenziali. Emerge, inoltre, in tutta la sua drammaticità, la questione del lavoro in nero.

Questi lavoratori già di per sé svantaggiati, un tempo non si avrebbe avuto timore a definire sfruttati, privi, generalmente, di tutele familiari, certamente non in grado di usufruire di ricchezze accumulate, questi lavoratori fra poco tempo saranno alla disperazione. Il che è ingiusto ed anche pericoloso per chi ha a cuore la cosiddetta pace sociale. Al momento non sembra esserci alternativa rispetto ad un massiccio e difficoltoso intervento pubblico. Certo il costo per lo Stato sarà altissimo e lo Stato siamo tutti noi. Si dovrà rivedere l’intero modello fiscale. Ma, intanto, qualche intervento urgente sarà necessario. Se, nel frattempo, come cittadini smettessimo di fare moralismo (il lavoro nero è illegale!) e praticassimo un po’ di morale, un po’ di solidarietà forse la situazione potrebbe essere affrontata con più serenità per quello che è possibile in queste condizioni. E’ giunto il momento che la politica ritrovi quel senso di responsabilità che ha sempre avuto nei momenti drammatici. Penso, ad esempio, al tempo dell’attacco terroristico al cuore dello Stato italiano. Certo non esistevano i social e gli stupidi e i cattivi avevano meno capacità di danneggiare il dibattito pubblico e la salute mentale delle persone. Ma i social sono strumenti, possiamo usarli anche in modo generoso e intelligente.

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