Regeni, inquirenti italiani in Egitto per recupero video metro

Foto Richard Morgano - LaPresse

di Alessandra Lemme

Roma, 14 mag. (LaPresse) – Saranno avviate domani al Cairo, alla presenza degli inquirenti italiani che indagano sulla morte di Giulio Regeni, le operazioni di recupero dei video delle telecamere di sorveglianza della metropolitana presa dal ricercatore friulano la sera in cui venne rapito, il 25 gennaio del 2016.

L’operazione, coordinata dalla procura generale d’Egitto, sarà effettuata da un team di tecnici russi e seguita da tecnici e inquirenti italiani che si recheranno al Cairo con una piccola delegazione della quale farà parte anche il pm Sergio Colaiocco. Le operazioni di recupero dei video andranno avanti per alcuni giorni, terminati i quali, una copia del materiale sarà consegnata a piazzale Clodio.

Intanto la madre del ricercatore, Paola Regeni, e il legale della famiglia, Alessandra Ballerini, hanno iniziato uno sciopero della fame per chiedere la liberazione di Amal Fathy, moglie di un loro consulente, arrestata in Egitto con l’accusa di terrorismo.

“Come donne siamo particolarmente turbate ed inquiete per il protrarsi della detenzione di Amal”, scrivono in una nota le due donne. “Nessuno deve più pagare per la nostra legittima richiesta di verità sulla scomparsa, le torture e l’uccisione di Giulio – aggiungono -. Vi chiediamo di digiunare con noi, fino a quando Amal non sarà finalmente libera. Noi siamo la loro speranza”.

Dopo oltre due anni di indagini, tra Il Cairo e Roma, la verità sul sequestro e l’omicidio del giovane non c’è ancora, anche se oggi c’è abbastanza per individuare almeno una parte delle persone certamente coinvolte nell’omicidio.

Giulio Regeni sparì la sera del 25 gennaio: il suo corpo martoriato fu trovato nove giorni dopo, lungo la strada che collega Alessandria alla capitale egiziana.

Gli inquirenti sono convinti che il ricercatore friulano fosse attenzionato da polizia e servizi egiziani già settimane prima del sequestro.

Le indagini sui tabulati telefonici hanno chiarito il collegamento tra gli agenti che si occuparono di tenere sotto controllo Giulio tra dicembre 2015 e gennaio 2016, e gli ufficiali dei servizi segreti egiziani coinvolti nella sparatoria con la presunta banda di criminali uccisi il 24 marzo 2016 a cui gli egiziani provarono ad attribuire l’omicidio (in casa di uno dei banditi vennero trovati i documenti del ragazzo).

Nelle prime settimane dopo il ritrovamento del corpo, tante false piste si susseguirono: prima si parlò di un incidente stradale, poi di una rapina finita male, successivamente si insinuò che il giovane fosse stato ucciso perché ritenuto una spia, poi che fosse finito in un giro di spaccio di droga, di festini gay, di malaffare che l’aveva portato a farsi dei nemici. A un mese dalla morte di Giulio alcuni testimoniarono di averlo visto litigare con un vicino che gli aveva giurato morte.

Il 24 marzo del 2016 arrivò l’ennesima ricostruzione non credibile e questa volta c’erano di mezzo cinque morti: criminali comuni uccisi in una sparatoria con ufficiali della National Security egiziana, alla periferia del Cairo. I documenti di Giulio furono trovati quello stesso giorno in casa della sorella del capo della presunta banda e si disse che i cinque erano legati alla morte del giovane.

A distanza di quasi due anni e mezzo dall’omicidio, anche se una verità ufficiale ancora non c’è, chi indaga in Italia è convinto che Giulio sia morto, dopo atroci torture, per gli studi che faceva, per quella ricerca sul campo cui lavorava con determinazione e serietà, che lo ha messo in contatto con persone che ne hanno segnato il tragico destino.

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