Società digitale, politica di plastica

Vincenzo D'Anna, ex parlamentare

Con l’appello ai “liberi e forti”, nel 1919, don Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare e precursore della Democrazia cristiana, scosse le coscienze dei cattolici invitandoli a scendere in politica per affermare non solo i principi della solidarietà e della pace, ma anche per farsi artefici di un vasto programma di riforme sociali delle quali non potevano farsi carico i socialisti e i marxisti atei, né i primi fasci di combattimento che operavano al soldo di latifondisti e capitalisti. Fu con quell’appello, che prese il via la grande epopea dell’elettorato cattolico e della dottrina sociale della Chiesa che, solo qualche anno prima, Papa Leone XIII aveva incartata nell’enciclica “De Rerum Novarum”. Sturzo aveva letto il segno dei tempi, comprendendo il tratto distintivo del secolo delle dittature e degli scontri sanguinosi tra ideologie fideistiche sia comuniste che fasciste. Il prete di Caltagirone argomentò che dopo il servizio a Dio quello politico era il più santo ed il più etico degli impegni che il cittadino potesse assumere per difendere i diritti e le libertà.

Passarono molti anni ed un altro sacerdote illuminato, don Lorenzo Milani, avvertì i cattolici ed i moderati italiani che “risolvere i propri problemi era l’egoismo, risolvere i problemi di tutti era la politica”. La sua, per dirla tutta, fu una nuova chiamata alle armi, all’impegno sul campo per partecipare alla vita della Nazione. Ma perché prima don Sturzo e poi don Milani sentirono il bisogno di spronare il popolo cattolico è moderato? Semplice: perché più volte, nel corso degli anni, ci si è imbattuti in situazioni nelle quali il disimpegno politico è diventato prevalente e l’egoismo dei singoli ha preso il sopravvento sulle questioni sociali e la tutela degli interessi generali. Accadeva cento anni fa, Accade oggi da oltre vent’anni, ormai, vissuti in uno stato di vero torpore sociale. Cambiano le motivazioni contingenti, insomma, ma resta il dato di fatto di una società apolitica se non addirittura astiosa e malmostosa verso coloro i quali si impegnano nella cosa pubblica. Eppure sociologi ed intellettuali del calibro di Popper, Bauman e Severino ci avevano avvertito che la tecnologia, la cosiddetta modernità telematica, avrebbe stravolto i rapporti sociali trasformando le persone in anonimi individualisti.

Ebbene, nell’era superveloce di internet si è formata una società liquido-moderna nella quale la solidità delle cose, così come quella dei rapporti umani, tende a essere considerata come una minaccia, in interferenza alla propria individualità. Un semplice contatto elettrico elevato al rango di amicizia. Il concetto di solidarietà è insomma sparito innanzi all’idea che tutti siamo antagonisti nel voler apparire. Qualunque progetto a lungo termine che ci leghi ad un patto sociale, viene rifiutato. Ma non basta. Attraverso la rete tutti possono dialogare con tutti, generando un apparente piano di parità, facendo scomparire le differenze tra informazione e conoscenza. Fior di asini impudenti si ritrovano così ad insolentire chiunque tenti di spiegare le cose con cognizione di causa, magari divergendo dall’opinione generale formatasi per mera solidarietà di massa (like e condivisioni). La falsa cultura paritaria uniforma le opinioni e fa scomparire la verità. Il principio di somiglianza non riconosce né l’autorevolezza, né quello della rappresentanza, scardinando un principio cardine della democrazia. In questo “bailamme” ciascuno accampa diritti e chiede qualcosa che lo gratifichi o che lo rassicuri ed i desideri diventano diritti.

La società digitale è spersonalizzata, anonima. E chi ne fa parte tende a non assumersi le responsabilità delle opinioni che vengono espresse, a cambiarle a seconda delle convenienze, insieme alle intenzioni di voto, mistificando, in coro, la storia pregressa della Nazione se questa contrasta con le esigenze del quotidiano. In sintesi: spesso è falso sia il messaggero che il messaggio. Su questa base sono cresciuti i leader della cosiddetta Seconda Repubblica: giganti del pensiero debole, diventati tali attraverso l’uso sapiente dei social. Loro, i padroni della rete, i nuovi idoli. Ma cosa serve per spezzare questo assurdo stato di cose? Cosa occorre per riprendere e rilanciare l’appello di don Sturzo e don Milani? Il rilancio dei partiti, innanzitutto. Intesi, però, come nuove e più organiche forme di enti di diritto pubblico, trasparenti e finanziati dallo Stato per la funzione essenziale che essi svolgono. Ma anche una presa di coscienza di quanti sono più avveduti, istruiti e smaliziati innanzi ai “nuovi profeti”. Tocca forse ancora a quelli che impararono la politica nelle sezioni dei partiti, che la praticarono come servizio sociale, che credettero nell’idealità prima che negli interessi personali, farsi avanti come guida per i più giovani. Aveva ragione Aldo Moro quando ammoniva in Parlamento: “Questo paese non si salverà e la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”.

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