Violenze nel carcere, ci sono altri filmati

L’incontro nella sede del garante regionale

NAPOLI – “Quello che appare nei video è solo una minima parte di quello che è accaduto a Santa Maria Capua Vetere. Nei video resi pubblici si nota un corridoio e una scalinata, me è nell’intero padiglione che sono state perpetrate violenze. Come il caso di un detenuto che è stato letteralmente massacrato nella sua cella perché gli agenti ritenevano che avesse con sé un telefonino”. E’ quanto emerso nel corso dell’incontro di ieri presso la sede del Garante campano all’isola F8 del Centro direzionale. Presenti all’incontro i garanti territoriali Pietro Ioia di Napoli, Emanuela Belcuore della provincia di Caserta, Carlo Mele della provincia di Avellino, insieme al Garante campano Samuele Ciambriello. Al centro dell’incontro fatti di Santa Maria Capua Vetere, quelli che sono stati definiti “pestaggi di Stato”. I garanti hanno fatto il punto sul carcere per “com’è” e per come “dovrebbe essere”, facendo riferimento al tempo trascorso tra gli eventi e lo sviluppo giudiziario. Hanno parlato di “15 mesi di silenzi, di complicità, di omissioni, nonostante le puntuali denunce dei garanti locali”. La sensazione è che la vicenda, dopo l’esecuzione delle misure e con la macchina giudiziaria che si è messa in moto per l’attribuzione delle responsabilità soggettive, non sia finita. “Dopo i fatti sono stati trasferiti 32 detenuti, a loro non è stata data nessuna spiegazione”ha affermato Samuele Ciambriello. “Sono stati trasferiti a Palermo, Palmi, Civitavecchia, Pesaro, Rieti e Modena. Questo clima non ci piace – spiega ancora – siamo per farli ritornare al più presto in regione Campania”. Non solo. “Alcuni reclusi che avevano chiesto il trasferimento per avvicinamento alla famiglia o per motivi di studio – ha continuato – sono stati ignorati con la motivazione del contenimento da Pandemia”. “Siamo stati un anno a lavorare sui colloqui. Ora li stanno trasferendo a centinaia di chilometri di distanza. Ci sono tanti padri di famiglia tra gli agenti della polizia penitenziaria ha detto Matteo Salvini. Ma ci sono figli anche tra i detenuti” specifica Emanuela Belcuore che, proprio sulla visita dell’ex ministro leghista aggiunge: “È sempre bene che le istituzioni vengano sul posto, sul territorio a visionare la questione. Io ero fuori dal carcere, poi ho sentito l’intervista di Salvini: alla domanda ‘perché non va dai detenuti’ lui risponde ‘io vado a trovare chi voglio’. Giusto che sia così, ma l’istituzione dovrebbe mediare e fare da ponte tra agenti della polizia penitenziaria, in questo caso, e i reclusi”. Poi la garante dei detenuti della provincia di Caserta conclude. “Non commento perché fuori luogo quello che ha detto sui garanti, anzi lo invito a passare la giornata con noi, con un telefono che ho riservato ai familiari dei detenuti, così si rende conto di cosa facciamo”. Alla domanda se queste violenze siano un ‘sistema’ diffuso anche in altri penitenziari, la risposta che arriva è chiara e la dà Pietro Ioia: “Siamo stati tante volte a Poggioreale e a Secondigliano e questo non accade”. Ma che Santa Maria Capua Vetere sia la pecora nera degli istituti di pena, è falso a sua volta. “Prego le istituzioni e la magistratura di far luce sul carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, che è un ex Opg nella forma, ma nella sostanza no”. Così ancora Emanuela Belcuore. “Ci sono molti familiari campani e del Napoletano che hanno detenuti lì e succedono delle cose inaudite – spiega -, ho scritto spesso al garante della regione Sicilia Giovanni Fiandaca, se si può far luce sul carcere di Barcellona affinché non ci sia un Santa Maria Capua Vetere due”. “Abbiamo chiesto un incontro al capo del Dap Bernardo Petralia e il suo vice Roberto Tartaglia, che è napoletano” ha concluso Samuele Ciambriello. “Inoltre – spiegano i garanti – abbiamo chiesto un incontro anche a Gianfranco De Gesu, capo della Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del Dap e designato dal ministero per la commissione interna per verificare i fatti di Santa Maria Capua Vetere”. I garanti spingono inoltre per poter avere un colloquio con il nuovo provveditore campano Carmelo Cantone, in sostituzione di Antonio Fullone, tra i destinatari delle misure cautelari eseguite nei giorni scorsi. Ciambriello incalza: “Accadono disguidi nelle carceri campane in alcune si fanno entrare i familiari, in altre c’è il limite dei figli fino a 14 o 18 anni, in altre nulla”.

Il racconto dei detenuti: noi aiutati da alcuni agenti, ci hanno dato protezione

Un vecchio detto ammonisce di non fare “di tutta l’erba un fascio”. Da quello che si evince dall’inchiesta sulle violenze all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, quel detto appare quanto mai appropriato. “Ci sono detenuti che ci hanno raccontato che alcuni agenti penitenziari, in quelle fasi concitate, li hanno aiutati. Li hanno protetti”. E’ il garante regionale Samuele Ciambriello a raccontare l’episodio. E’ qualcosa che fa intravedere un raggio di sole, vista anche la considerazione espressa dal gip Sergio Enea che, nell’ordinanza di custodia cautelare parla della violenza come “una costante nel rapporto tra gli indagati e i detenuti”. Per i garanti sarebbe, tuttavia, sbagliato “prendere spunto da questa drammatica vicenda casertana per formulare giudizi di generalizzata censura nei confronti dell’intero corpo della polizia penitenziaria, i cui componenti in larga maggioranza sono invece soliti operare nel rispetto delle leggi, con dedizione al lavoro e spirito di sacrificio; sottoponendosi spesso per di più, anche a causa di carenze o mancate coperture di posti in organico, a turni stressanti che producono a loro volta usura fisica e disagi psicologici di varia natura”. Sì, perché nel microcosmo del carcere, in quello spaccato di società chiuso tra quattro mura, vivono tutti. Detenuti, ma anche poliziotti. “Ed è giusto anche dare in questo momento atto agli agenti e al restante personale penitenziario di avere molto contribuito, con competenza e scrupolo, a fronteggiare l’emergenza sanitaria, così impedendo una diffusione di contagi all’interno degli istituti di pena che avrebbe altrimenti potuto assumere proporzioni assai allarmanti”. Tutto è iniziato proprio per le tensioni generate dal Covid e dalla paura dei contagi.

Il racconto è quello di un testimone, di un recluso. “Abbiamo appreso, nel corso del pomeriggio, dal telegiornale, che un detenuto era stato riscontrato positivo al Coronavirus, presso il reparto Tamigi – spiega agli inquirenti – ci siamo subito preoccupati per le nostre condizioni di salute e abbiamo, unitamente ad altri detenuti di altre sezioni, richiesto di parlare con qualche responsabile per risolvere la situazione”. Preoccupazione, dunque. Perché se la pandemia faceva e fa paura all’esterno, figuriamoci tra quattro mura. Il recluso racconta che con altri detenuti si era fatto portavoce della richiesta “all’agente alla porta, di potere parlare con un responsabile. Dopo qualche minuto è salita il commissario donna, l’Ispettore del reparto Nilo, munito di manganello, del quale non so il nome, insieme ad altri cinque o sei agenti. Il commissario donna chiese il mio nome e subito dopo fece una telefonata mentre mi guardava. La stessa si trovava in una garitta adibita alle telecamere. Sulla soglia di quanto accaduto in precedenza, nell’occasione del litigio, avendo paura di essere anche noi picchiati, ci siamo subito barricati dentro la sezione. Abbiamo messo le brande in modo da bloccare le porte di ingresso per evitare un ingresso di agenti, che pensavamo sarebbe accaduto da lì a poco”. Gli agenti dissero di interrompere la protesta e avrebbero promesso “che non sarebbe successo nulla in seguito”. Sulla base di quelle rassicurazioni fu detto ai detenuti che sarebbero arrivate anche le mascherine. “Noi abbiamo smontato le brande e ci siamo tranquillizzati. Visto che le mascherine sono arrivate, uno si e fatto portavoce della nostra sezione ed e andato a parlare con i detenuti della sezione 3, per incoraggiarli a smettere la protesta, visto che eravamo accontentati nella nostra richiesta”. Era il 5 aprile del 2020. “Il giorno dopo venne il magistrato di Sorveglianza ad ascoltare 15 persone circa. I detenuti, dopo avere esposto i loro problemi sono risaliti e ci hanno reso edotti delle loro richieste, anche relative ai dispositivi di protezione per fronteggiare il pericolo Coronavirus. Verso l’orario di chiusura, ore 16:00 circa, la mia cella venne aperta e arrivarono 5-6 agenti che probabilmente erano di altri reparti del carcere, tutti in divisa, e ci dissero che dovevano eseguire una perquisizione. Io sono stato tra i primi ad essere ispezionati”. Il resto è violenza.

Altri 150 poliziotti rischiano l’inchiesta

La macchina giudiziaria è in moto. Nella giornata di ieri il provveditore Campano del Dap, Antonio Fullone, attualmente sospeso dalla sua carica, ha avuto il confronto con il giudice. Difeso dall’avvocato Sabina Coppola, Fullone si è avvalso della facoltà di non rispondere, ma ha rilasciato alcune dichiarazioni spontanee comunque non inerenti l’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere. Il ‘caso’ Santa Maria non è chiuso e si ipotizza che, oltre ai 117 uomini della Penitenziaria finiti nel registro degli indagati, 18 dei quali raggiunti da misure cautelari detentive), ci potranno essere altri 150 uomini (se non di più) sui quali si potrà posare la lente dell’autorità giudiziaria. Un atto dovuto, semplicemente perché presenti all’interno del penitenziario quando si sono verificate le violenze. Sarà poi l’autorità giudiziaria a formulare accuse individuali se responsabilità soggettive verranno accertate. Molti, infatti, indossavano caschi e tenuta antisommossa e non sono risultati riconoscibili. Ma esistono elenchi in cui i nomi di quegli agenti, trasferiti da altri istituti di pena, figurano. Per il garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, nell’episodio delle violenze nel carcere di S. Maria Capua a Vetere “l’errore iniziale che mi aveva insospettito già dal 17 aprile 2020 è che chi era intervenuto all’interno del carcere era un insieme di 154 persone esterne raccolte da diversi istituti penitenziari che quindi non conoscevano niente né erano abituati: mancava quindi una catena di comando”. All’epoca, il titolare del ministero era Alfonso Bonafede e Francesco Basentini era a capo del Dap. “Sarebbe stato meglio avere un intervento dei Gruppi Operativi mobili della Polizia Penitenziaria, perché hanno un’alta professionalità ma soprattutto hanno una catena di comando: se sbagliano so con chi prendermela, so dove c’è stato l’errore”. Per Palma: “Raccogliere delle persone da vari istituti e mandarle lì è un segno di scarsissima professionalità che poi può dar luogo a quella situazione che effettivamente si è verificata”. Secondo i garanti “resta il fatto che la magistratura interviene ex post, dopo che le reali o presunte condotte illecite sono state realizzate. Mentre l’attività di prevenzione, sotto diversi aspetti ancora più rilevante, spetta ad altri organi istituzionali individuabili in questo caso nel Dap e nei suoi vertici: i quali dovrebbero farsi nel futuro maggiormente carico di orientare la formazione professionale dei poliziotti e di tutto il personale penitenziario alla stregua di modelli culturali, criteri e metodi in grado di inibire alla radice il possibile manifestarsi di una mentalità contrappositiva e di atteggiamenti aggressivo-ritorsivi nei confronti della popolazione detenuta”. “Atteggiamenti tanto più inammissibili, se si considera che al poliziotto penitenziario sono affidati l’ordine e la sicurezza, ma anche il compito di partecipare al trattamento rieducativo”.

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