L’America di Joe

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

Del lento ed inesorabile declino della politica estera americana abbiamo già scritto sulle colonne di questo stesso giornale commentando i recenti fatti afghani. Quello che è venuto meno (e che era rimasto per più di mezzo secolo ben impresso nell’immaginario collettivo dei paesi occidentali), è stato il volto degli Usa salvatori dell’Europa e del Sud Est Asiatico, Cina compresa, dalle grinfie dei regimi dittatoriali che ebbero nell’asse Berlino-Roma-Tokyo i propri punti cardinali, con nazismo, fascismo e nazionalismo giapponese a farla da padrona. Erano gli anni dell’ultimo conflitto mondiale. Il successivo piano di aiuti umanitari, conosciuto come piano Marshall, che seguì le vicende belliche e che, guarda caso, era targato Usa, sollevò il Belpaese dalla fame e dal caos di una crisi epocale, diretta conseguenze della sciagurata guerra nella quale era stato precipitato. Insomma la maggioranza degli italiani, che non fosse di fede comunista, ebbe a mente, per oltre mezzo secolo, l’immagine di un paese difensore della libertà. Un’immagine corroborata anche dalla circostanza che la guerra fredda contro l’Urss ed il comunismo in generale, aveva chiamato gli americani prima in Corea e poi in Vietnam a difendere il Sud di quei paesi dall’aggressione della controparte settentrionale a guida marxista. In effetti questa nomea aveva già attecchito nella coscienza dei popoli liberi all’indomani dell’intervento degli Usa durante la Grande Guerra (1914-1918) in difesa degli anglo francesi e di riflesso della stessa Italia impegnata in quel conflitto al fianco delle forze dell’Intesa contro gli imperi centrali. Ad onor del vero la politica estera americana, già qualche decennio prima del secolo scorso, ebbe in Theodore Roosevelt il presidente americano che, con carattere forte e deciso, applicò la teoria del “bastone più lungo”. Si trattava di impegnare la macchina militare statunitense (il randello), rendendola più forte (la lunghezza del randello), per poter così intervenire ovunque gli interessi americani e quelli dei suoi alleati, fossero minacciati. Per quanto di carattere arcigno, nel 1906 Roosevelt fu insignito del premio Nobel per la pace, avendo lavorato come mediatore nel conflitto russo giapponese e ponendovi termine. Un personaggio dunque di prima grandezza al quale si deve la costruzione del Canale di Panama e la fine di molte guerriglie in Sud America. Bisogna arrivare agli anni ‘40 del secolo scorso con un altro Roosevelt, Franklin Delano, perché la politica di intervento militare americano rinnovasse l’impegno di quella estera a sostenere la causa della libertà in Europa e nel mondo. Così fecero i successori Henry Truman e poi, di seguito, Dwight D. Eisenhower e J. F. Kennedy e così via fino all’avvento alla Casa Bianca di Barak Obama. Quest’ultimo, immemore della tradizione americana dell’ultimo secolo, diede vita ad un progressivo ritiro delle truppe americane nel mondo, spesso voltando le spalle agli alleati di sempre, soprattutto in Medio Oriente. Una politica, la sua, avvitata sullo scenario interno americano e sulle questioni economiche, che ha trovato in Donald Trump una continuità, sia pure partendo dai presupposti autarchici ed improvvisati dell’estroso ed imprevedibile leader repubblicano. Insomma, quello che non seppero o non riuscirono a fare le politiche di critica poste in essere dalle forze della sinistra internazionale (con il loro perseverante anti americanismo), fecero i presidenti di quella nazione. È pur vero che quel declinante cambiamento nella politica estera poggiava sul convincimento che il crollo dell’impero sovietico e la caduta del comunismo avevano lasciato l’America senza un valido, credibile antagonista sulla scena internazionale. Comunque sia, quella sicurezza venne man mano meno, sia per il riorganizzarsi su basi capitalistiche della Russia di Vladimir Putin ed ancor di più della Cina, col suo capitalismo economico controllato da un regime politico comunista ed autoritario. Inutile ribadire che, in casa nostra, la sinistra italiana, sempre alla ricerca di icone da venerare, affetta dal provincialismo di sempre, parteggia per i presidenti americani che disarmano l’America, così come fanno gli atei devoti coi Papi di ispirazione progressista e sostanzialmente socialisti nella visione del loro pontificato. Insomma: tifando per tutte quelle posizioni che per certi versi avvalorano valori e teorie socialisteggianti. Fu per questo che si è iniziato ad idolatrare prima Obama e poi Joe Biden, in quanto “liberal”, nella stessa misura in cui hanno esecrato l’agire delle presidenze repubblicane. La vicenda afghana ha quindi messo a nudo la demagogia delle politiche arrendevoli, la vocazione all’appeasement (la pacificazione unilaterale) di Obama e di Biden. Ora che un intero arsenale di armi letali è stato lasciato dall’insipido Joe Biden nelle mani dei talebani (e forse dei terroristi), la Cina si arricchisce di risorse naturali e di un ruolo nevralgico, qualcuno in Italia diventa pensoso e titubante. Questa è l’America di Joe, tenetevela, bellezze!

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome