Addio professore

Certamente sarà commemorato in quella grande aula di Montecitorio ove si riuniscono i deputati della Repubblica. Lì dove per ben sei legislature svolse il ruolo di rappresentate della Nazione e due volte ne fu Ministro (agli Affari esteri ed alla Difesa). Antonio Martino, professore emerito di Economia, non fu solo questo ma ben altro ancora nel panorama politico della Seconda Repubblica. Purtroppo se ne è andato, tre giorni fa. Con la sua improvvisa scomparsa se ne va un liberista d’altri tempi, convinto assertore del sistema elettorale maggioritario. Martino ha fatto parte di quel ristretto gruppo di intellettuali che, insieme a Mariotto Segni, si prodigò perché la politica italiana andasse oltre le stantie procedure istituzionali, mandando per sempre in soffitta i giochi partitocratici e le camarille di corridoio. Erano quelli i tempi in cui il terremoto scaturito da tangentopoli, aveva delegittimato tanto i partiti, quanto le istituzioni parlamentari. Tempi bui nei quali, rotto il legame fiduciario tra eletti ed elettori, i falsi moralisti (rivelatisi, poi, anch’essi partecipi del finanziamento occulto) trasformatisi in manettari senza freni, inaugurarono la stagione della gogna per chiunque avesse militato in politica. Un’onda anomala si diffuse rapidamente in quegli anni, alimentando quel cancro metastatizzato che fu la sub cultura conosciuta come anti-politica. In nome di quest’ultima, tra un agitar di cappi e di avvisi di garanzia, interpretati come sentenze inappellabili, si concludeva per sempre una fase della nostra storia. Travolti i partiti tradizionali che avevano governato lo Stato nel dopoguerra, prendevano vita quei simulacri personalizzati e plastificati che ancora oggi gemmano e muoiono nel tempo di un lustro. Martino fece appunto parte dell’era nuova della Seconda Repubblica ed in particolare del ristretto cenacolo di menti eccelse che furono chiamati a fare da “maître à penser” per il lancio del nuovo progetto politico. Quello di dare vita ad un partito liberale di massa, redigere un vasto programma riformatore che avrebbe dovuto sciogliere i nodi gordiani che da decenni ingessavano la politica e immobilizzavano ogni proposito di riforma dello Stato e della sua burocrazia. Insomma: dare corpo alla rivoluzione liberale, poi miseramente tradita dall’egocentrismo personale del Cavalier Berlusconi e dalla sopraggiunta necessità, da parte sua, di dover badare ai propri interessi. Con essa occorreva varare anche la riforma della giustizia, quella del fisco, del pubblico impiego, dei servizi statali bolsi e ridondanti, degli sprechi del danaro pubblico e del galoppante aumento del debito. In una sola parola: si doveva mettere mano alla riforma costituzionale rendendo più efficiente uno Stato i cui vertici venissero indicati direttamente dagli elettori con il sistema maggioritario. Parole come liberalismo politico e libero mercato di concorrenza furono sdoganate e accreditate come fattori di sviluppo e di crescita e non più come aberrazioni ideologiche in antitesi con lo statalismo imperante dello Stato onnipresente, titolare di monopoli e di privilegi. Un coacervo di interessi pseudo pubblici trasformatisi nella gestione di diecimila aziende, quasi tutte deficitarie, retaggio degli andazzi clientelari del ceto politico dominante. Il professore con altri emeriti esponenti del liberalismo come Marcello Pera, Giuliano Urbani e finanche Lucio Colletti, redento dal credo marxista (che Martino addebitava alla lettura di una pessima edizione della “Ricchezza delle nazioni” di Adamo Smith), inaugurò un modo nuovo di “fare e di pensare” politica che si era perso appena tramontata l’era degasperiana imperniata attorno al popolarismo liberale di don Sturzo e di Einaudi. Un’innovazione che però i governi di centrosinistra, con i loro pregiudizi e le meditate menzogne di chi è abituato a vivere di rendita, criminalizzò come espressione di una società competitiva e senza regole morali, intesa a realizzare il profitto dimenticando la solidarietà. Ora che la storia ha reso onore a quei postulati, adesso che quasi tutti si stanno dicendo liberali, ora che si coglie il valore e la statura di quegli uomini che seppero navigare contro il vento della demagogia e dello scambio tra voto e favori, la lezione di Martino torna prepotentemente d’attualità. Il professore mi onorò della sua amicizia e della sua considerazione. Mi insegnò che la giustizia sociale era un ossimoro, uno strumento posto nelle mani di chi governa per elargire e distribuire la ricchezza prodotta a determinati blocchi sociali dai quali poi pretendere voti e riconoscenza. Nemico dello Stato massimo, esoso e gabelliere, dilapidatore del danaro del contribuente, mi spiegò che avvilire con le eccessive tasse chi lavora per gratificare e premiare che non vuol lavorare, sarà per sempre l’eterna dannazione del socialismo. Una lezione forse amara, come tutte le verità di questo mondo. Ma pur sempre una lezione. Addio professore.

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