Giocare con le ‘notizie’. E’ ora di dire basta

C’era un tempo in cui fare il giornalista era qualcosa che non si poteva improvvisare. Era il tempo in cui i caporedattori ricevevano 15-20 telefonate al giorno da ogni singolo collaboratore della testata che sgomitava nella speranza di vedersi pubblicata la sua storia. ‘A notizia. Questo giornale, come altri, è stata fiera fucina di tantissimi collaboratori, ora giornalisti, che sbattevano svariate volte contro il muro della notiziabilità, della valutazione del valore notizia e soprattutto del rispetto di basilari aspetti deontologici, opportunamente valutati da chi quella gavetta l’aveva fatta prima di loro. Era il tempo in cui lo spazio in pagina era limitato e non esisteva il web che – da straordinaria opportunità – diventa un cestino senza fondo di similfatti che in pagina non ci sarebbero mai andati, da un lato, e che sacrificano buona parte di tutti i valori fondanti di questa professione e del suo impatto nella vita delle persone in cambio di facile sensazionalismo, dall’altro. Questo lungo cappello, figlio di fondi d’altro tempo, serve a introdurre al lettore un’altra storia, questa personale. Riguarda i primi tempi in cui mi facevo le ossa (spezzandomele ripetutamente) in ambito giornalistico e ancora stavo imparando a fare i giusti distinguo tra ‘fattariello’ e notizia. Un collega con le ossa più spezzate delle mie mi raccontò di questo clochard che bivaccava nel suo quartiere, risiedendo spesso in un’aiuola del centro ormai diventata ‘sua’, conosciuto da tutti, che impazziva quando gli puntavano la macchina fotografica contro.
Non si sa come, non si sa perché, ma ritrovò il suo volto su un giornale per motivi che ora non riesco a recuperare dagli archivi della mia memoria. Era sconvolto: lontano dalla sua aiuola, in un’altra città, c’era una famiglia convinta lui fosse una persona socialmente inserita e con una situazione personale ben diversa. Si suicidò poco dopo.
Lampante la lezione per chi, di mestiere, è chiamato a raccontare storie: tutti hanno diritto alla privacy (e non è così scontato invaderla) e non è possibile trascurare la componente umana da questo storytelling (per dirla con un inglesismo volutamente inappropriato).
Oggi il mondo è diverso e qualcuno, dietro l’ormai estenuante storia delle “suole consumate” per strada, trova il valore notizia online. Così sbatte in pagina la foto di una clochard intenta a espletare le sue funzioni corporee nella Villa Comunale di Napoli quando, a pochi passi, c’era una manifestazione con dei bambini. Senza filtro, senza effetti blur. Del resto, la foto è nel gruppo “Salviamo la Villa Comunale”, perché dovrei mai preservare la dignità di un essere umano attraverso la gestione di una foto che – secondo ogni singolo documento ben conservato nelle sedi dell’Ordine dei Giornalisti – non dovrebbe in alcun modo essere diffusa? Quelli del gruppo “Salviamo la Villa Comunale” forse non lo sanno (certo, se chi ha scattato la foto anziché tirar fuori lo smartphone avesse fatto altro sarebbe stato indubbiamente meglio) ma un giornalista dovrebbe. E andiamo oltre il caso concreto: in questa città sui clochard si sta giocando una partita a dir poco “discutibile” tra sostenitori e oppositori dell’amministrazione cittadina. In questo contesto questi esseri umani sono spesso trattati nel racconto in maniera incivile. Numeri, problemi da risolvere, pacchi da spostare. Proprio chi ha un ruolo di diversa responsabilità non può e non deve dimenticare il compito che è chiamato ad assolvere, e in che modo. Onde evitare, per logiche che non tengono conto di nessuna umanità, di umiliare (a morte) altri esseri viventi. Speriamo sia l’ultima leggerezza.

Enrico Parolisi
Esperto di comunicazione digitale

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