Giorgia non è Badoglio

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

Chi ha avuto la fortuna di studiare la storia sui banchi di scuola, quella, per intenderci, che sempre insegna ma non trova discepoli, come scriveva Antonio Gramsci, avrà senz’altro memoria dell’ingresso del generale Pietro Badoglio ad Addis Abeba, il 5 maggio del 1936. L’occupazione di quella città rappresentò l’azione conclusiva della guerra d’Etiopia ponendo, di fatto, il paese del Corno d’Africa nelle mani degli Italiani. Con la conquista dell’Abissinia (così era detto, allora, quel paese) giungeva a compimento il progetto coloniale voluto dal duce, Benito Mussolini: dare concretezza all’enfatica teoria della costruzione di un impero coloniale anche per il Belpaese. In concomitanza con la caduta della capitale venne anche la decisione del negus Hailè Selassié, di prendere la via dell’esilio riparando in Inghilterra. L’imperatore spodestato tenne, in seguito, un memorabile quanto coraggioso discorso davanti alla Società delle Nazioni (antesignana della moderna Onu), con il quale rivendicò, per il suo popolo e il proprio stato sovrano, il diritto all’autodeterminazione e alla libertà di poter vivere in pace.

Negli anni del conflitto italo-etiopico, la scelta degli stati europei di procacciarsi, con la forza, spazi vitali oltre confine, dai quali poi trarre materie prime a buon mercato e spazi commerciali, stava ormai volgendo al termine. Ciononostante, il regime fascista volle attivarsi lo stesso, sia pure fuori tempo massimo, nel tentativo di affermare la propria grandezza politica e militare, illudendosi di calcare le orme dell’antica Roma dei Cesari. Il negus sarebbe tornato sul trono di Addis Adeba il 5 maggio del 1941, dopo la sconfitta delle truppe italiane per mano dei britannici, governando quel paese per altri quarant’anni e instaurandovi un regime dispotico ed arretrato fino a quando non fu “fatto fuori” con un golpe militare. Accadde nel 1974. Da quel momento l’Etiopia ha vissuto una fase tribolata, che ha visto il susseguirsi di sommosse, guerriglie e uno scontro violentissimo con la vicina Eritrea. Da allora l’ex impero del negus non è più riuscito a darsi un governo democratico e duraturo, atto a risolvere pacificamente i propri problemi. Per anni la destabilizzazione politica e governativa l’ha fatta da padrona, tramutandosi anche in esperimenti di governo che si riferivano al marxismo economico, oppure al dispotismo del satrapo di turno.

Un perenne caos che ha portato quella nazione a una condizione sociale fatta di miseria e di malattie endemiche. Lo stesso può dirsi per la storia della Somalia, dell’Eritrea e della Libia (tutte ex colonie italiane); soprattutto per quest’ultima, la famosa “quarta sponda”, i fatti sono maggiormente noti all’opinione pubblica italiana in quanto legati al regime dell’eclettico dittatore, il colonnello Muhammar Gheddafi. Il perenne stato di instabilità politica, la perdurante guerra intestina tra le fazioni para militari identificatesi nell’aspirante dittatore di turno, ha determinato, in quelle terre martoriate, un fattore decisivo nei confronti di quanti hanno scelto la via della fuga, emigrando in Europa oppure chiedendo asilo politico ai paesi del Vecchio Continente. Certo non sono gli unici, considerando il quadro degli Stati nord africani ed asiatici, ma è da quelle terre, soprattutto dalla Libia, che passano le carovane dei disperati che poi approdano sulle sponde dello Stivale: un flusso incessante e massiccio che peraltro rappresenta solo la punta di un iceberg, essendo oltre cinque milioni i disperati accampati sulla sponda africana dirimpettaia dell’Italia. Ben venga allora un piano organico che porti aiuti e, se possibile, democrazia direttamente in quelle terre per disincentivare il flusso migratorio. Piano teoricamente eccellente, certo, ma di ben difficile attuazione!

Il governo di Giorgia Meloni ha opportunamente dichiarato la redazione di un intervento organico in quei Paesi ribattezzato “Piano Mattei” in onore dello storico fondatore dell’Eni, la compagnia petrolifera italiana che, alla fine degli anni ‘50, seppe conquistarsi un posto di primissimo piano tra le altre analoghe aziende internazionali di quel settore. Mattei sconfisse il cartello delle “sette sorelle” proponendo agli Stati detentori di quei giacimenti dei piani di investimento sociali derivati dai proventi dell’uso delle materie prime: ospedali, scuole, infrastrutture, strade, dighe in cambio del gas e dell’oro nero. Analogamente tenta di fare, oggi, la leader di FdI, con la visita in quei paesi, per irregimentare e limitare il flusso migratorio.

Del piano non si conoscono ancora i contorni specifici e la tipologia delle opere, tantomeno l’impegno economico. Credo occorrerà anche l’aiuto finanziario della Ue perché si riveli ampio ed efficace. In ogni caso questa volta la politica ha indicato una scelta giusta e concreta. Per quanto la sinistra voglia accollare alla Meloni la lettera scarlatta di “erede del Fascismo”, ad Addis Abeba stavolta ci è arrivata Giorgia non certo Badoglio. I suoi detrattori se ne facciano una ragione…

*già parlamentare
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