CASAPESENNA – Con Antonio Iovine fuori dal clan dal 2014 e Francesco Bidognetti, in prigione dal 1993, ormai simbolo di una cosca in piena decadenza (sostanzialmente azzerata da arresti e collaborazioni con la giustizia), la decisione di Francesco Schiavone Sandokan di collaborare con la giustizia ha dato il colpo di grazia a ciò che restava dei Casalesi.
L’organizzazione criminale nata dalle ceneri dell’impero bardelliniano non esiste più. E il suo declino, in realtà, è iniziato molto prima della scelta di Sandokan di parlare con i magistrati. Ha preso il via con il graduale indebolimento della cassa comune: litigi tra i boss sulle quote, poi i mancati versamenti e lo spettro di nuove faide, come quella che stava per innescarsi tra Nicola Schiavone e Michele Zagaria Capastorta (nel biennio 2008-2010), l’avevano già pesantemente fiaccata.
E negli ultimi anni, come ha recentemente confermato il pentito Vincenzo D’Angelo, genero di Cicciotto ‘e mezzanotte, grazie alle costanti operazioni dell’Antimafia, si è letteralmente polverizzata. L’organo dove confluivano parte dei proventi delle attività illecite degli Schiavone, degli Zagaria e dei sanciprianesi (i Bidognetti avevano cassa a parte) per garantire sostegno agli affiliati è scomparso. Ogni cosca negli ultimi anni ha provveduto a mantenersi autonomamente. Uno scenario che non certifica, però, la fine della mafia dell’Agro aversano. Cosa significa? Che il clan dei Casalesi è semplicemente diventato altro. E in questo ‘altro’ sono gli Zagaria, adesso, la forza criminale più imponente.
È sparita l’immagine di una piovra possente, con una testa, ovvero Sandokan, posta a garanzia culturale delle azioni dei suoi robusti tentacoli che gestivano i business illeciti restando fedeli a logiche territoriali tracciate negli anni Novanta. Il clan si è sfaldato: le cosche che lo animano non sono più legate tra loro da alcun collante ed ognuna, con ciò che le è rimasto a disposizione, agisce in solitaria.
Con Emanuele Libero Schiavone tornato in libertà da meno di una settimana e con il fratello Carmine che pure a breve dovrebbe rimettere piede a Casale, visto che non hanno scelto di accettare il programma di protezione offerto loro con il pentimento del genitore, c’è il pericolo che i due possano provare a rimettere ordine nel clan, magari (la speranza è che ci sbagliamo) si attiveranno per procurare un nuovo collante capace di tenere uniti i resti delle cosche e dare nuovamente organicità alla mafia dell’Agro aversano. Se imboccheranno questa strada, si imbarcheranno in un progetto criminale che si prospetta lungo e che avrà bisogno, per concretizzarsi, di azioni dimostrative (devono mettere distanza tra loro e il pentimento del genitore). Ma ad ostacolare questo sogno (incubo) criminale c’è una forza investigativa estremamente attenta e capace, che agirà prontamente stroncandoli sul nascere. Uno scenario, questo, di cui gli Zagaria sono pienamente consapevoli. Sanno che se dovessero adottare, pure loro, atteggiamenti ‘classici’ avrebbero vita breve. Ed infatti i casapesennesi non paiono avere intenzione di provare a risvegliare quel clan dei Casalesi che mirava a controllare militarmente parte della provincia di Caserta, rumoroso, sanguinario e che inevitabilmente arrivava a scontrarsi a viso aperto con lo Stato. La cosca Zagaria, invece, si è inabissata e ha preso le distanze da quella mafia ‘bassa’, animata dallo spaccio di droga e dalle estorsioni. È diventata leader di quella ‘alta’, che beneficia del sostegno di imprenditori e di politici, che ha diversificato i propri business investendo il denaro sporco non solo in Italia, ma anche all’estero, che ha ancora una credibilità criminale tale da poter confrontarsi con le altre organizzazioni criminali italiane (lo scorso 26 ottobre abbiamo scritto dei contatti tra gli Zagaria e i Senese per organizzare alcuni business in terra lombarda).
A differenza degli Schiavone, il gruppo di Casapesenna è ancora forte economicamente: ed è questa garanzia finanziaria che spinge il boss Michele Zagaria a resistere al 41 bis e a non pentirsi (quando aveva chiesto il ‘permesso’ di provare a collaborare con la giustizia in una lettera, datata 2016, inviata alla sorella Beatrice, questa lo fermò bruscamente).
La compagine di Casapesenna è una macchina che continua a produrre soldi nonostante l’impegno della Dda che, nell’ultimo decennio, è riuscita a bloccare alcuni suoi importanti business, come quelli in Romania o gli affari connessi alla distribuzione del latte e alle catene di supermercati. Il problema è che ce ne sono tanti altri non ancora scalfiti dalle indagini
Altro aspetto da considerare: rispetto agli Schiavone e ai Bidognetti, tra le file degli Zagaria non c’è alcun collaboratore di giustizia che ha legami di sangue con il padrino. Simile a una ‘ndrina, la linea di comando del gruppo segue esclusivamente logiche familiari: i segreti sono noti soltanto a Capastorta e ai suoi fratelli. E se nessuno di loro parla con i magistrati, difficilmente emergeranno (e avere segreti significa essere forti, avere carte da giocare).
A rendere ora estremamente pericolosi i casapesennesi è il fatto che i ‘colonnelli’ sono tutti liberi: i fratelli di Michele (Carmine, Antonio e Pasquale Zagaria) e il nipote Filippo Capaldo, che hanno avuto un ruolo decisivo nella gestione della cosca durante e dopo la latitanza del padrino, sono fuori dal carcere e liberi di muoversi. E in uno contesto dove gli altri boss sono o in cella o pentiti, hanno a disposizione una prateria per coltivare e far crescere i loro affari. Ma lo faranno non mischiandosi con i settori che potrebbero addentare i figli di Sandokan (droga e pizzo). Hanno puntato e punteranno su altro sguazzando nella zona grigia, fatta di colletti bianchi borderline. E fermarli ora per l’Antimafia sarà la vera sfida.
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