I sopravvissuti

A guardare le vetrine riccamente addobbate per le festività natalizie, la domanda sorge spontanea: come hanno fatto a sopravvivere intere generazioni senza tutto quel ben di Dio esposto sugli scaffali? Non parlo di quelle che hanno patito le miserie (fame ed indigenza) della guerra e del dopoguerra. Nossignore. Parlo dei “baby boomer”, come i sociologi chiamarono tutti quelli nati in Europa ed in Nord America tra il 1946 e il 1964, ovvero durante il periodo del cosiddetto “boom demografico”. Gente che in gran parte oggi vive la “quarta età” e ben ricorda, dunque, gli anni della propria gioventù. Anni che coincisero con una vita certo migliore rispetto a quella vissuta dai loro nonni e dai loro padri, caratterizzata, in parte, dall’onda lunga del “boom economico”, allorquando alla vecchia lira, veniva attribuito il titolo di moneta regina nel panorama europeo ed il prodotto interno lordo veleggiava verso indici considerevoli. Era quello un tempo di transizione tra una miseria che non c’era più ed un benessere in fieri, ancora di là da venire, ma comunque ben stabile e diffuso. La piaga dell’emigrazione che aveva afflitto i ceti più poveri indirizzandoli verso i paesi ricchi d’Europa e Sud America, si spostava ora verso il mercato interno, in pieno sviluppo industriale: dal Sud al Nord della Penisola, migliaia di meridionali si trasferivano nel cosiddetto “triangolo industriale” Torino-Milano-Genova, ove serviva manodopera a sostegno della rinnovata produzione industriale. Era quello un periodo nel quale la gente pareva felice di non soffrire più la vita grama dei genitori e cominciava ad riassaporare il piacere di vivere. I ragazzi di allora erano felici con poco. Educati secondo princìpi e valori tramandati in famiglia, il numero di quanti cominciavano a preferire la scuola per i figli al posto del lavoro minorile (che pure si rendeva indispensabile per incrementare le magre entrate finanziarie) iniziava, a poco a poco, ad aumentare. Una scelta non da poco, quest’ultima, che ben presto cancellò il diffuso analfabetismo, anche grazie alla diffusione della neonata televisione. Le famiglie erano numerose, nonostante la modestia reddituale. Le donne non avevano timore di deturparsi il fisico con le gravidanze né di ricoprire di eccessive ed ansiose premure i propri figli. Gli strumenti di gioco erano frugali: una fionda, una spada di legno, una bambola di stoppa, un carroccio fabbricato su misura per involarsi lungo i crinali e qualche bicicletta rimodernata. Si beveva alle fontane pubbliche e si coltivavano amicizie scambiandosi figurine dei giocatori e biglie di vetro. I campi di calcio erano prati con porte formate da borse e libri di scuola. Era di rigore l’olio di fegato di merluzzo che conteneva complesso vitaminico naturale.
L’olio di ricino si beveva per depurare l’intestino, le siringhe si bollivano e le praticavano, in genere, donne di paese dedite a tali incombenze. A scuola si studiava con due soli testi: il sillabario ed il volume di aritmetica, senza gli immani sovraccarichi degli zaini che affliggono oggi i giovani alunni. Per i più poveri c’era la refezione scolastica con latte in polvere e pane di mattina e una scodella di pasta a mezzogiorno (con un frutto di stagione), con buona pace delle moderne tabelle dietetiche. Ci si vaccinava per il vaiolo e la poliomielite esigeva ancora il suo triste tributo tra i bambini, la mortalità infantile ancora elevata. Non c’erano tanti pedagoghi ad impartire la didattica alla moda. In classe volava qualche ceffone per gli asini e qualche bacchettata sulle mani degli impertinenti: l’unico a scaldarsi era il maestro con una piccola stufa elettrica. Per quanto burbero potesse essere, costui rimaneva una figura cara e la foto di gruppo della classe un cimelio da conservare negli anni. Nessun genitore ne contestava i metodi ritenendo il suo agire, anche nelle severe punizioni, autorizzato in quanto correttivo e per giuste finalità educative. Non c’erano i telefoni se non quelli a gettone o col centralino per le interurbane, a cui ricorrere nei casi più urgenti e le comunicazioni più serie. Gli innamorati si scrivevano lettere piene di passione e le ragazze indossavano il grembiule pure al ginnasio. Gli esami erano seri: non si basavano sul retroterra economico e sulle condizioni familiari dello studente, bensì sulla sua intelligenza e sulla volontà che egli aveva di studiare. Coloro che non volevano saperne erano avviati al lavoro ed avrebbero prosperato in attività artigianali oppure commerciali. Insomma si stenta a credere che quella generazione sia sopravvissuta, arrivando fino ad oggi, nonostante le scarne dotazioni: forse erano pochi gli strumenti, non la volontà di migliorare e riscattare la propria condizione sociale. Si era più poveri, sì. Ma gli amici erano in carne ed ossa e ci si voleva un gran bene.

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