La Patria di Cavour

Ricorre l’anniversario della morte di Camillo Benso Conte di Cavour e la patria a cui il grande statista piemontese dedicò la propria vita, non ha avuto un solo cenno di commemorazione nei suoi confronti. Quelli della mia età hanno ricevuto, attraverso i libri di storia, un’encomiastica illustrazione delle gesta di fine diplomatico dell’accorto e sagace capo del governo sabaudo. Si deve, infatti, a lui la strategia politica e diplomatica che consentì la creazione di uno Stato che coincidesse, per la prima volta, anche geograficamente e politicamente, con il sentimento di quell’Unità da tanti invocata. Certo non fu un diffuso sentimento di popolo ma di élite culturali, di pensatori, poeti e filosofi più che che di masse rivoluzionarie. Certo nel Nord vi erano state insurrezioni contro l’occupazione asburgica del Lombardo Veneto nel mentre Trentino e Friuli rimanevano nelle mani di Vienna. Nel Sud prima lo Stato Pontificio, che si spingeva fin in Emilia Romagna, poi quello delle due Sicilie, da secoli identificato sotto la sovranità dei Borbone, erano pervasi da sommosse locali senza però alcuna reale pretesa di voler entrare a far parte di un più vasto disegno unitario. Gli echi della rivoluzione francese e gli ideali di libertà avevano pervaso anche il nostro Meridione di un sentimento di riscatto dalla monarchia assoluta. Prima la repubblica Partenopea nel 1799, poi quella Romana avevano invocato la nascita di stati costituzionali, pagando un tributo di sangue per le successive restaurazioni dell’ancien regime. Tuttavia il sogno di unire tutto lo Stivale in un un’unica nazione, vagheggiato da Giuseppe Mazzini, restava solo una congettura. D’altronde la Storia ci aveva insegnato che per secoli ci eravamo sentiti “italiani” per cultura, assonanza di lingua e di idealità senza però essere mai riusciti a diventare un unico Stato. Quello che la lingua di Dante e l’opera degli artisti del Rinascimento univa non veniva tradotto politicamente in un un’entità chiamata “Italia”. Non estranei a questa incapacità di sintesi del comune sentire erano le cento beghe delle autonomie locali e l’ancestrale solipsismo degli italiani oltre alla radicale differenza di condizione socio economica tra il Settentrione ed il Meridione dello Stivale. Un retaggio che dopo un secolo e mezzo resta ancora vivo sotto il nome di “questione meridionale”. Solo Cavour seppe guardare oltre e immaginare che gli italiani potessero diventare un solo popolo. Un merito storico che non può essere taciuto né sottovalutato, quali che siano siano le opinioni sulle modalità attraverso cui fu realizzata l’Unità e le conseguenze che poi ne derivarono. E non fu cosa semplice dal punto di vista politico, diplomatico e militare realizzare quell’idea innanzi al frazionismo ed all’analfabetismo dilagante che caratterizzava ampi territori della futura nazione. Più borghese ed emancipato il Nord, sotto il profilo della cittadinanza consapevole dei propri diritti, più rurale il Mezzogiorno, dove la popolazione soggiaceva a un’organizzazione sociale con ampie tracce di feudalesimo. Eppure pezzo dopo pezzo Cavour seppe muoversi sulla scacchiera degli stati europei, dopo il congresso di Vienna che sancì la restaurazione post Napoleonica in Europa, trasformando in nazione quella che il diplomatico austriaco Klemens Von Metternich aveva definito “un’espressione geografica”. Per quanto piemontese purosangue, il Conte di Cavour seppe usare metodi molto “italiani” per raggiungere lo scopo. A cominciare dalla Francia e dal suo nuovo re, Napoleone III, che fu prima blandito dalla diplomazia italiana capeggiata dall’intellettuale Costantino Nigra e poi ammaliato dalla seducente bellezza di Virginia Oldoini, meglio nota come la Contessa di Castiglione, cugina di Cavour, che ne divenne l’amante. Insomma fu messo in atto un combinato disposto tra l’intelligenza colta della diplomazia e le muliebri virtù della bellezza italiana. Dopo la seconda guerra d’indipendenza con la quale Torino potè annettersi la Lombardia, si passò ad allargare la scena blandendo gli inglesi ed i loro interessi commerciali nel Sud della Penisola, facendo leva anche sull’idiosincrasia di Londra per il regno dei Borbone che possedeva una flotta da fare invidia e concorrenza a quella britannica. Nacque su questi presupposti l’epopea, molto romanzata, dei “Mille” di Giuseppe Garibaldi. Corrotti i generali borbonici, infiltrato Camillo Boldoni al Sud per sobillare le popolazioni della Lucania e del Barese, fu facile avere ragione dell’imbelle, religiosissimo e pacifico Francesco II detto “Franceschiello”. Non restava che prendere Roma che cadde con la breccia di Porta Pia per esaurire il disegno unitario. “Fatta l’Italia occorrerà fare gli Italiani”, affermò Massimo D’Azeglio che di Cavour fu a lungo rivale (pur avendo moltissime cose in comune con lui). Un compito ancora da realizzare in una Patria spesso senza memoria e gratitudine.

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