M5S, la delusione di chi ci ha creduto

Foto LaPresse/Emiliano Albensi

C’è stato un momento, nel nostro Paese, in cui davvero la maggioranza degli italiani pensava che il Movimento 5 Stelle potesse rappresentare una speranza. L’exploit alle Politiche dell’anno scorso, arrivato dopo un decennio di battaglie e slogan lentamente assimilati dall’elettorato, ha sparigliato le carte nel panorama politico nazionale e internazionale, perché ha fatto assurgere a temi di dibattito questioni che prima nessun altro aveva posto. Almeno, non in maniera così chiara. La guerra ai poteri forti, i lobbisti chiamati per nome e cognome, la sacralità della missione politica, il vincolo di mandato, la rinuncia alle immunità parlamentari, i tagli agli sprechi della politica, la chiusura ad ogni tipo di alleanza, le decisioni prese in diretta streaming. Nessun soggetto politico, prima, aveva proposto questo agli italiani. E infatti gli italiani hanno dimostrato, con l’astensionismo prima e con il voto di protesta poi, quanto fossero stanchi della Balena Bianca, del berlusconismo, della sinistra radical chic, dei finti sostenitori degli operai e di tutti quei modelli che la Storia, e i fatti, avevano bocciato. Chi, il 4 marzo dell’anno scorso, ha votato Movimento 5 Stelle, credeva davvero nelle facce pulite di Luigi Di Maio e compagni, non a caso da tutti chiamati “ragazzi”, mica politici. Credeva nel cambiamento, credeva in un’Italia nuova che di lì a poco sarebbe stata (ri)costruita, fidandosi ciecamente del fatto che ‘uno vale uno’ e che i professionisti della politica sarebbero stati pensionati. Poi, però, qualcosa è cambiato. I ‘ragazzi’ sono diventati prima ‘portavoce’ e poi ‘onorevoli’ dotati non di uno, ma di 28 portavoce; qualcuno ha rinunciato alle auto blu facendosi rimborsare 26mila euro di taxi; i ‘poteri forti’ sono diventati alleati e le dirette streaming sono scomparse, lasciando il posto ai conciliaboli riservati. Come in una Dc qualunque. I consensi hanno cominciato ad imboccare la china discendente, le ultime elezioni regionali sono state un disastro… ed ecco il colpo di genio: cambiamo le regole che hanno fatto del Movimento 5 Stelle il Movimento 5 Stelle. Luigi Di Maio è salito sul pulpito e, senza consultazioni, senza condivisione, ha appallottolato come una cartaccia dieci anni della sua storia. Via libera alle alleanze, addio al vincolo del doppio mandato. Se avesse detto “mi devo inventare un lavoro perché alla fine della mia seconda legislatura sarò un disoccupato qualunque” avrebbe fatto meno impressione. Almeno sarebbe stato sincero. Perché la perdita di consensi verticale che sta subendo il Movimento 5 Stelle dipende da questo: non è più quello che dice di essere. L’affidabilità è un valore imprescindibile in un rapporto a due, tra due amanti come tra l’eletto e l’elettore. La ‘riconoscibilità’, ad esempio, è ciò che consente alla destra sociale di conservare – nonostante propugni idee spesso superate e anacronistiche – il suo elettorato: perché non cambia, non fa sorprese, incarna esattamente i valori in cui quel 3% si identifica. Il Movimento 5 Stelle no. Muta pelle più in fretta dei serpenti perché ha dimostrato, coi fatti, di non avere capisaldi e di non dare certezze: tutto può cambiare, a seconda del momento. Ed ora è cambiato fino a snaturarsi. E’ un Pd sbiadito, con le sue regole sempre trasgredite grazie alle mille deroghe. Di Maio è una caricatura di Renzi, sebbene abbia fatto il percorso inverso: dal chiodo alla giacca, e non il contrario. E’ un peccato, perché le intenzioni erano buone. Talmente buone che in tanti abbiamo fatto finta di non vedere l’impreparazione, l’approssimazione, le gaffes, illudendoci ancora una volta che il fine giustifica i mezzi. Ma a tutto c’è un limite, lo sapeva pure Machiavelli. “Perché un principe che può fare quello che vuole è un pazzo”. E un popolo che non sbaglia non esiste.

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