Ma che ne sanno gli altri

L'intervento di Enrico Parolisi, esperto di comunicazione digitale

Ma che ne sanno gli altri. Sono Gian Marco, ho 44 anni. Ho una compagna, Marisa, con cui sto già da qualche tempo. È la mia seconda famiglia. La prima è il Corpo di Polizia di Palazzolo. Ne sono fiero, di questo lavoro. L’anno scorso, più o meno in questo periodo, ho avuto il mio primo encomio ufficiale. Ma che ne sanno gli altri.

Che ne sanno di quanto quella divisa contasse per me. Di quanto duro sia per un siciliano costruirsi una vita nel bresciano e meritare ogni giorno quella divisa contro ogni velato pregiudizio. Che ne sanno loro di quella volta che ho fermato un’auto rubata e ho probabilmente evitato una rapina. Che ne sanno di quante volte ho silenziosamente fatto volontariato per i meno fortunati del mio paese.

Che ne possono mai sapere.

Io sono Gian Marco, il vigile che deve “vergognarsi”, che commette “abusi di potere”. Che “può anche ammazzarsi”. Ho fatto una cazzata, certo. Ho lasciato l’auto d’ordinanza in un posto per disabili. Per qualche ora. Chissà che avevo in mente in quel momento.
Sarebbe bastato che Giovanni Manzoni, il presidente dell’Anmic di Bergamo, avesse chiesto direttamente a me conto del mio gesto. Non a Facebook, pubblicando la foto della mia volante.

Che ne possono mai sapere, che mi sono sentito un verme. Ho chiesto scusa. Ho spiegato che non è proprio nelle mie corde. Ho contribuito, ho spedito all’associazione 100 euro. So che non sono molti, ma la mia busta paga non mi permette molto altro. Mi hanno ringraziato, mi hanno detto che avrebbero usato quei soldi per la loro battaglia alle barriere architettoniche.

Ma che ne possono sapere. Che ne possono sapere quelli che hanno scritto una legge inutile sul cyberbullismo convinti riguardasse solo i bambini. Che ne possono sapere i giustizieri mascherati che vogliono fare incetta di consenso entrando con uno smartphone nelle vite delle persone. Che ne sanno, loro, di cosa c’è dentro quella vita. Perché dovete distruggermi in pubblica piazza, insultarmi, quando sarebbe bastato un colpo di telefono, davvero. Esistono dei canali ufficiali. Non sono un mostro. Ma mi state facendo sentire così. Sicuramente non lo immaginavi tu, Giovanni. Eri solo incazzato, lo comprendo. Non immaginavi cosa avresti scatenato. Ti prego, perdonati e perdonami di nuovo per quello che sto per fare.

Sono Gian Marco, alla tv c’è Sanremo e quindi, forse, dopo avermi insultato non noterete nemmeno la mia mancanza. Sono Gian Marco, posso anche ammazzarmi, e mi sono sparato in volto nella mia auto d’ordinanza il 4 febbraio 2020”.

Gian Marco Lorito, 44 anni, agente di polizia, ha parcheggiato l’auto in un posto riservato ai disabili. La foto che ritrae la sua volante occupare irregolarmente il posto è finita su Facebook e sui giornali, scatenando l’odio della Rete. Gian Marco non ha sorretto quell’ondata di insulti e si è ucciso con un colpo della sua pistola d’ordinanza. Certo, non si può e non si deve mai banalizzare un suicidio e la complessità di ciò che c’è dietro, ma questa storia ci restituisce una serie di considerazioni che abbiamo l’obbligo di sentire nostre. Sicuramente, ad esempio, sull’efficacia delle norme contro il cyberbullismo. Ma il mio pensiero corre altrove, mentre con rabbia mi confronto con questo foglio. Corre ai tanti personaggi in cerca d’autore che hanno dimenticato i “canali ufficiali” a favore del ritorno in termini di popolarità su Facebook. Vicino a noi ne abbiamo qualcuno che rischia di dimenticare come i social appiattiscano la profondità di chi li usa. Anche il migliore di noi, anche Gian Marco, può diventare carne da macello, davanti all’(in)giusto processo imbastito dal tribunale del web che non aspetta altro di vomitare bile al singolo passo falso. E sono sinceramente disgustato da chi, invece, ha deciso non solo di cavalcarle queste dinamiche, ma di farne una professione.

di Enrico Parolisi, esperto di comunicazione digitale

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