Meno stato, più mercato


Il primo libro ad essere pubblicato nel dopoguerra, contro l’egemonia dello Stato padrone e l’intervento generalizzato, di quest’ultimo, in economia, fu scritto da don Luigi Sturzo. Quel libro si intitolava “Contro lo Statalismo” e rappresenta ancora oggi una lettura in grado di spiegare in cosa consiste la dissipazione del pubblico denaro a cui la classe politica è tuttora avvezza. In sintesi, quel testo spiega quali siano le cause prime e vere dello stratosferica consistenza del debito italiano e la scadente qualità dei servizi resi al cittadino dai monopoli statali e dalle aziende partecipate dal Ministero dell’Economia (le ex partecipate statali). Don Sturzo guardava lontano. Contrario all’idea dello Stato onnipotente ed onnipresente, il celebre sacerdote sosteneva che lo Stato rettamente inteso, è indispensabile al vivere civile. K. Popper, il pensatore liberale, avrebbe detto in seguito  “lo Stato e’ un male necessario e come tale deve essere minimo”.
Tuttavia quando le sue funzioni esorbitano nello statalismo, ecco che si realizza una perversione dell’idea stessa di Stato, in quanto la logica della gestione politica delle aziende si piega all’interesse politico e non alle opportune  decisioni  imprenditoriali, cancellando ogni morale amministrativa. Perciò lo statalismo non è in favore dello Stato, bensì contro di esso, mentre la partitocrazia è il fenomeno più appariscente della malattia statalista. Don Sturzo non negava l’intervento statale in determinati casi, ma l’interventismo generalizzato. Non discuteva la direttiva dello Stato, ma il dirigismo che soffoca la libera iniziativa e le libere energie del mercato di concorrenza. Il prete di Caltagirone tuttavia operava, dopo il lungo esilio, negli anni difficili del dopoguerra, tempi nei quali si idolatrava l’intervento statale e la politica economica dettata da J.M. Keynes che assegnava al potere centrale la più ampia facoltà d’intervento ed ingerenza nel cosiddetto mercato di concorrenza. L’errore degli idolatri Keynesiani  è consistito nel non aver appreso di Keynes due cose: la sua teoria era pensata per un’economia di guerra e quindi spettava allo Stato veicolare tutte le risorse economiche disponibili verso lo sforzo bellico. La seconda è che la teoria dell’intervento statale massivo consentiva ai politici di poter contrabbandare, erroneamente, la presunta superiorità etica dei fini perseguiti dal pubblico, in quanto questi erano privi di lucro, a fronte delle attività  lucrative che erano le finalità degli interventi privati. Keynes era un socialista dell’ala Fabiana (la più a sinistra del partito laburista inglese) e trovava assonante l’idea che fosse lo Stato a menare le danze in economia; questa facoltà fu ritenuta, tra l’altro, un’opportunità gestionale e clientelare dalla politica, quella  che deteneva il potere in quel momento. Insomma: i politici potevano mettere le mani sulle somme versate dal contribuente con l’alibi di intraprendere e realizzare i propri progetti e le promesse elettorali in nome dello Stato, con l’aggiunta dell’aureola salvifica che si trattasse di bene pubblico e non di “volgari” interessi privati. E’ su queste contraddizioni e sulle menzogne di politica economica e di etica pubblica che ancora oggi  alimentano la fiducia della gente comune. Questa  l’idea dello Stato imprenditore, nasce dal confondere la pubblicità dei servizi con la gestione statale dei medesimi. Una topica enorme che ancora consente agli uomini scelti per governare, di occupare l’apparato produttivo statale, godere dei privilegi monopolistici e del ripiano a pié di lista delle immancabili perdite finanziarie di esercizio dell’impresa a capitale pubblico. Perdite che vengono parcellizzate e distribuite in capo alla massa dei contribuenti i quali finiranno per non accorgersene, salvo pagarle sotto forma di tasse!! Ecco perché Don Sturzo affermava che lo statalismo rompe il nesso etico che intercorre tra la ricompensa e il merito, abolisce l’alea che corre il privato imprenditore perché lo Stato comunque rifonde le perdite delle sue imprese. Per entrare nel cuore di questa furbizia che si è radicata come luogo comune, occorrono degli esempi. L’ultimo è il fallimento di Alitalia. Ebbene fallita più volte, la compagnia aerea di bandiera è stata rifinanziata spesso con i soldi degli Italiani. Trasformata in ITA Airways è rimasta deficitaria!! Per fortuna ultimamente è stata venduta alla Lufthansa tedesca. Un fatto che ci fa dire che il governo ha saputo tagliare il cordone ombelicale che da oltre mezzo secolo accollava agli italiani l’onere di rifondere denaro sonante!! Contro le aspettative di molti, il governo ha infatti sbloccato la partita per la cessione di Ita Airways, con la vendita del 41 per cento della compagnia al gruppo tedesco per 325 milioni di euro. Si tratta di un passaggio importante che lascia sperare che l’infinito travaglio di Alitalia sia finalmente concluso. Come esempio di privatizzazione è perfetto e credo debba  essere ripetuto per le tante altre aziende in deficit. Che dire? Meno Stato e più Mercato:  questa è la formula vincente.

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