“Storia dell’Oratoria Forense”, il nuovo libro dell’avvocato Crisileo

L’avvocato Raffaele Crisileo e il professore Giuseppe Papale hanno ultimato il loro lavoro dal titolo “Storia dell’Oratoria Forense”. Un libro che analizza nel loro insieme l’arte oratoria e la figura dell’avvocato penalista.

La copertura del libro
Il professore Giovanni Aricò tra gli avvocati Gaetano Crisileo (a sinistra) e Raffaele Crisileo (a destra)

L’intervento dell’autore, l’avvocato Raffaele Gaetano Crisileo

Il professore Giuseppe Papale

“Storia dell’Oratoria Forense”, è questo il titolo dell’ultimo libro che sta per essere presentato e che ho curato con un professore di lettere antiche e cultore della letteratura latina e greca. Abbiamo voluto fare uno studio dove abbiamo analizzato due mondi: l’arte oratoria e la figura dell’avvocato penalista. Da un lato siamo partiti con l’analisi del mondo antico fino ad arrivare a quello di oggi. Dall’arte oratoria dei più antichi relatori ed avvocati del mondo ellenico come Demostene e Lisia per arrivare a quello romano con Cicerone e Cesare, per poi giungere a trattare il tema della comunicazione e dell’eloquenza come strumento prettamente tecnico per dialogare con il Giudice, per rapportarsi con la Corte e trasmettere loro i saperi dell’avvocato al fine di orientarli nella decisione che è un parto, un travaglio, una gestazione. Ho ritenuto di dare il mio contributo, nel libro, da avvocato, come è concepita la funzione e il suo ministero oggi; una professione-vocazione che trascina nel mondo della sua sofferenza. Un avvocato – come sottolineo nel libro – che, secondo me, deve essere uno psichiatra e uno psicologo nello stesso tempo perché il penalista è una persona che lavora con la mente e sulla mente. E con la mente – ne sono convinto – non si arriva attraverso magie o stregonerie, ma per mezzo di moduli, di percorsi che sono una serie di possibilità che ci possono consentire di capire e di percepire la situazione che si presenta dinanzi a noi quando siamo chiamati a difendere una persona in Tribunale dinanzi ad un Giudice. E i moduli – debbo sottolineare – sono l’arte oratoria di un tempo (ovviamente in chiave moderna e tecnica), poi la persuasione e infine la comunicazione: come il saper parlare in pubblico. Ciò perché – come ha sottolineato il professore Giuseppe Papale nel testo – da duemila anni, la giustizia penale è orale ed il processo penale è caratterizzata da oralità ed immediatezza. In un processo – come ha più volte ripetuto nelle sue magiche arringhe il mio amico e grande maestro il professore Giovanni Aricò – avvengono fatti imprevedibili che richiedono decisioni improvvise ed immediate. Quindi la improvvisazione – insieme ad una sorta di atteggiamento quasi istrionico – sono prerogative, secondo me, che appartengono al mondo dei penalisti in generale (mi riferisco a quelli dei Fori delle nostre terre, il Foro sammaritano e quello napoletano, antichissimi ambedue per cultura, formazione, per appartenenza di nomi illustri e per tradizioni e radici).
Nel nostro libro abbiamo evidenziato che il processo penale sia nell’antichità sia oggi, è un vero teatro in cui il penalista, come il Demostene di allora è un professionista che deve sempre dimostrare le sue doti linguistiche ed oggi anche doti tecniche perché – diversamente da un tempo – la prova si forma a dibattimento.
I più grandi avvocati di ogni epoca – e la scuola e la tradizione napoletana e di terra di lavoro in primis – hanno sempre sostenuto che essi non sono portatori di una verita’, ma di un forte convincimento delle tesi che sostengono. E questo è vero ! E mi permetto di aggiungere che il tutto va in una sapiente miscela di determinazione, di sicurezza e di preparazione. E come diceva il grande avvocato Alberto Dall’Ora – quando difese Enzo Tortora – i penalisti devono essere capaci non solo di persuadere, ma anche di stare in silenzio e di ascoltare. E questo principio – come ha dimostrato il prof. Giuseppe Papale nel volume – è valido dall’antichità ad oggi perché il difensore è rimasto sempre lo stesso. Perché il suo scopo è sempre il persuadere, perché il luogo é sempre il Foro (il Tribunale), da Demostene a Lisia, da Cicerone a Quintiliano a Seneca a Cesare, da De Marsico a Porzio fino ad oggi. Perché – come ha detto in una recente lectio magistralis l’avvocato napoletano Vincenzo Siniscalchi – lo strumento è sempre la parola. Quello che è cambiato – dico invece io – sono i clienti che oggi, rispetto al passato, chiedono sempre di più. Vengono nei nostri studi già acculturati, perché Internet ha fatto la sua parte. Una mia riflessione al riguardo la ritengo doverosa: purtroppo oggi le relazioni con il cliente sono sempre più difficili.
Nel nostro libro un tema particolarmente a cuore è stato quello della comunicazione perché ritengo che la professione dell’avvocato è un vero e proprio dibattito nell’ambito giuridico che avviene attraverso l’oratoria, intesa come proprietà di linguaggio, come capacità di utilizzare riferimenti al momento di dover argomentare e con capacità di adattare il registro.
In definitiva l’oratoria apporta forza e sicurezza all’avvocato, tanto in fase di giudizio e di processo.
Pensate che da un recente sondaggio e’ risultato che oltre l’ 80% dei clienti in cerca di assistenza legale, ha dichiarato di considerare, come criterio di scelta, il come l’avvocato penalista parla e il come si esprime.
In conclusione tutto ciò significa che la comunicazione tra le parti migliora quando il cliente è portato ad instaurare una relazione emotiva con il proprio avvocato.
In tutto questo ha un ruolo determinante anche la persuasione, come atto automatico, in quanto è una forza potente e gli elementi chiave sono l’uso di parole, di simboli e di immagini.
Non vi è dubbio che la persuasione è lo scopo della nostra vita professionale. E’ un miracolo che, quando si verifica, ci riempie di gratificazione. Mentre l’arte della persuasione ha interessato perfino gli antichi greci con la nascita della retorica ci sono differenze significative tra come si applichi oggi la persuasione rispetto al passato. Ciò in quanto la comunicazione persuasiva, oggi, viaggia molto più rapidamente ed in modo molto più sottile rispetto al passato. Essere dei buoni persuasori è un’arte: non c’è una via preparata, ma ognuno per arrivare alla persuasione deve creare da se la lingua, il metodo e l’arte. In definitiva è un fatto intellettuale ed emotivo perchè il cuore conosce le ragioni che le ragioni non conosce ( diceva un filosofo greco). Quante sono le emozioni che albergano nell’animo del Giudice che possono influire su questo fenomeno miracoloso della persuasione.
Ma le ragioni del successo dell’avvocato – come abbiamo concluso nel libro io ed il professore Giuseppe Papale – è l’eloquenza e millenni di storia lo confermano.
In definitiva concordo con Goleman il quale ha affermato che il successo dipende dall’intelligenza emotiva e non solo dagli studi accademici.
Sappiamo bene che un avvocato che conosce tutte le leggi, se non è in grado di comunicare efficacemente, limita di molto la sua professionalità.
Un suo più modesto collega che invece ha imparato l’arte dell’eloquenza avrà sicuramente maggiore successo.
Questo è il messaggio che io e Papale abbiamo voluto trasmettere con il nostro libro e speriamo di esserci riusciti e che la critica apprezzerà il nostro sforzo quando a breve verrà presentato.

L’intervento del professore Bartolomeo Pirone, accademico dell’Ambrosiana, ordinario di lingua e letteratura araba, storico ed esperto di manoscritti antichi. Scrittore ed esperto della cultura islamica e del mondo arabo. Oratore e conferenziere

Il professore Bartolomeo Pirone

Ricordo che sentendo dire che Bossuet preparava i suoi Discorsi declamandoli innanzitutto per sé, davanti a uno specchio quasi a creare e dare voce alle sue parole, rimasi stupefatto. Ma percepivo dentro di me il fascino della persuasione dell’oratoria s’essa fosse stata sempre eloquente e ammaliatrice. Rincorrevo i ricordi di Draconte, di Solone, di Demostene, di Lisia e di Cicerone mi lusingava l’efficacia delle sue arringhe e la solida struttura del dialogo processuale e, da buon orientalista, ripercorrevo i prati dell’eloquenza elaborata ed esposta da al-Jurjàni. Riuscivo a essere presente nell’inizio e nella sua continuità, nella pienezza d’un tempo irrorato da vigorose sinuosità del dire e, quasi travolto, elogiavo la potenza catartica della parola.
Leggendo oggi questo libro, le mie sensazioni si fanno materia di palpeggiamento, sono in grado di vedere una creatura che mi mostra le sue membra rosee e delicate e fa sì che la parola si tramuti in arpa e i fremiti dell’emozione in soddisfatti sopori. Si tratta di sviscerare i rami di una disciplina sempre attuale nell’esserci e nel divenire dell’uomo, nella svariata gamma delle sue virtù e dei suoi vizi, della sua eleganza e della sua goffaggine, della sua prestanza e della sua esilità, del suo eroismo e della sua vigliaccheria. Oggi però la parola non è solo dell’uomo. L’uomo ha creato svariate cose che non sono più lui, ma parte di lui, che non sono più in lui, ma fuori di lui, che non sono la sua carne ma la carta che sfoglia, il computer che accende, il telefonino che attiva, la televisione che manovra, i processi che urlano l’innocenza o la colpevolezza, la ressa di giornalisti che intercettano parole piuttosto che creare la parola. C’è una sorta di oratoria chiassosa, svagata, direi addirittura distratta.
Ma non è questa l’oratoria di cui si discetta in questo libro. La riflessione e l’attenzione per la storia riscatta la deriva informatica che sa troppo di mordi e fuggi. Eloquenza, persuasione e comunicazione si riscoprono quindi come valori irrinunciabili per la dignità dell’arte forense e, tutt’e tre insieme, costituiscono il perno gravitazionale di ogni possibile elaborazione dell’autentica figura d’un avvocato-difensore-accusatore. Osare e dire che il penalista non deve essere portatore di verità, ma di un forte convincimento delle tesi che sostiene, potrebbe sulle prime sconcertare o magari anche scandalizzare, ma a ben riflettere tradisce la vera anima di un dibattito che di per sé non mira al vero, perché in questo caso si scontrerebbero la verità necessaria dell’accusa e la verità necessaria della difesa, ma deve sapere e dover convincere. Riappropriarsi dell’oratoria nel suo significato di sempre, pur se mal si concilia con la crescente affezione delle masse verso le tecniche di comunicazione odierna, è la pressante e insostituibile istanza per conferire forza e sicurezza all’avvocato, tanto in fase di giudizio e di processo, quanto negli incontri, nelle sessioni con i clienti e nelle diverse fasi del processo in sé, dove sembra addirittura doversi consacrare all’avventura della parola e dimenticarsi che si sta parlando, trascinati dalla fascinazione dell’inventio.
Al di là di ogni altro secondario aspetto, questo libro intende essere un manuale di eloquenza, di retorica, piuttosto che un buon testo di grammatica, ma non può prescindere dalla necessità di armonizzare eleganza, tecnica e comunicazione per restituire all’eloquenza la sua funzione di dare efficacia alla verità, compenetrandosi nelle istanze oggigiorno emergenti delle dinamiche della psicologia e della psichiatria, onde avere chiara la dimensione soggettiva del giudice e dei protagonisti della causa in modo da incidere sulle pieghe dei loro personali coinvolgimenti nel dibattito penale.
Si tratta di un libro scritto a quattro mani, su sentieri diversi del pensiero e dell’esperienza sul campo, avendo come punto di riferimento l’antichità classica con i suoi maggiori legislatori, le casistiche appropriate di singoli reati, i profili strutturali dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni giudiziarie, militari e religiose, allora unificate in una singola figura, passate in seguito agli arconti, ai tesmoteti e ai funzionari dei collegi propriamente detti degli Undici e dei Quaranta. A costoro si affiancarono quindi i logografi, che per mestiere scrivevano discorsi per l’accusatore o per l’accusato fino a divenire una vera e propria classe di retori, ricchi della loro cultura e del mistificante potere della parola, come fu appunto Lisia, che divenne poi perspicace e avveduto avvocato al quale è dedicato un intero capitolo, insistendo soprattutto sulle sue capacità di far emergere in ogni suo processo le caratteristiche morali e caratteriali dell’accusatore o dell’accusato, sublimando il discorso diretto con ponderato uso delle figure retoriche, quali l’iperbole, la metafora, la prosopopea, la metonimia, l’anacoluto e il parallelismo. Ma sapeva anche essere istrionico, ovvero fiutare i momenti più opportuni per sdrammatizzare la causa in sé, sfruttando con sagacia gli elementi comici delle situazioni dibattimentali, mai trascurando tuttavia la circostanziata natura dei fatti concreti sui quali far gravitare l’impianto del dibattito.
Già logografo anche Isocrate fu eminente oratore, cesellatore di finissimi discorsi soprattutto a carattere politico, ma spesso per situazioni e protagonisti idealizzati, fuori dai tribunali, lontano dalla gente, però sempre diretto ad agire in profondità sull’animo e sulla mente degli ascoltatori. Come fece dopo di lui Aristotele, l’aristocratico della vera e propria Retorica, alla quale dedicò una sua opera in tre libri, analizzando ed esponendo a sufficienza i mezzi di persuasione, lo stile e le parti del discorso. E come passare sotto silenzio le Orazioni di Demostene, rigogliose di tecniche processuali e oratorie, ancora oggi di indubbia efficacia in un vero e proprio impianto accusatorio o difensivo? Come non sostare ai piedi di un Licurgo e scorrere le sue Orazioni intrise di pathos morale e giuridico che meglio di ogni altra cosa stagliano nel firmamento della giustizia amministrativa le garanzie di una verità che non può essere altro che il vero dimostrato e inculcato?
Ma se così era in Grecia, a Roma i reati oggetto di contenzioso non erano del tutto dissimili, compresi quelli contro i figli e le donne, come non molto diverse erano le pene comminate per ciascuno di essi. Sorprendente è che tra di essi figuravano già i reati per brogli elettorali o di compravendita di voti. Non c’era una sostanziale differenza tra processo penale e processo civile, è vero, ma già si adombrava la possibilità di dirimere i contenziosi con accordi extragiudiziali, con soddisfacenti misure di risarcimenti, facendo a meno di adire i tribunali permanenti, sostitutivi di quelli popolari.
Questo e molto altro leggiamo in questo libro nei periodi fulgidi dell’arte oratoria e nelle sue decadenze, dove il retore vagava più che ergersi, ciondolava più che dominare la scena, nicchiava più che essere persuasivo. Se Cicerone era stato una vetta, Tacito aveva troppo il tratto del letterato e dello storico, la sua era arte descrittiva, orizzontale e poteva quindi meglio capire in quale avvallamento si dimenasse la perduta vigoria di retori e avvocati che animano il suo Dialogus de Oratoribus, molto sottilmente analizzato in un capitolo a parte del libro, come altrettanto in altro capitolo, con uguale acribia e attenzione, si ripercorre la forte personalità di Quintilliano, riscattato maestro d’oratoria e d’eloquenza tra tanta pusillanimità di pensiero.
I flussi e riflussi storici sono sempre testimonianza del bene e del male, di realtà celesti e realtà terrene, di eroismo e di codardia, di belle e di cattive lettere. Come anche di buona e di cattiva giustizia, così come di ottimi e di peggiori avvocati di diritto civile e di penale. Un’occasione che gli autori non mancano pur di non spezzare il filo della continuità narrativa ed espositiva del loro libro, sostando opportunamente sulle fasi evolutive del diritto dall’età romana all’età medievale, periodo di transizione illuminato dal Novus Iustinianus Codex che così a lungo avrebbe influito su tutta la disciplina giudiziaria, orientata a una decisiva implementazione delle sue sedi e dei suoi organi, lambendo il territori della contemporaneità con i nuovi linguaggi del corpo e le sofisticate tecniche del linguaggio.
L’oratoria si fa così arte mimetica e gestuale, studio del corpo e della voce, profondità di sguardi e sospensione di mani quando non lanciate in alto ad auspicare un verdetto desiderato, con il preciso intento di dar luogo a quel blocco passionale e dimostrativo, entrambi capaci di trasmettere al pubblico, alle giurie e al giudice l’essenziale empatia che ogni vero retore-avvocato si augura di esercitare con l’armatura della sua formazione e professione.

L’intervento del professore Raffaele Santoro, docente universitario di diritto ecclesiastico e di diritto canonico, autore di numerose pubblicazioni e di opere sul diritto pontificio ed esperto di diritto processuale penale nell’ambito del diritto canonico

Il professore Raffaele Santoro

Il volume dell’amico avvocato Raffaele Crisileo e del professore Giuseppe Papale analizza in un complesso percorso storico l’oratoria forense, quale arte di parlare ed esporre oralmente nel processo in modo chiaro, coeso e coordinato una determinata argomentazione rappresentando i contenuti con ordine, efficacia, compostezza, eleganza, sicurezza, stile, anche con la corretta gestualità.
Come affermava Cicerone: “L’oratore infatti deve possedere molte nozioni, senza le quali l’arte del dire si riduce ad una pompa di parole vuota e ridicola, deve curare lo stile non solo con la scelta, ma anche con l’adatta collocazione delle parole e deve inoltre conoscere a fondo tutte le passioni, che la natura ha dato al genere umano, perché è nel calmare o nell’eccitare gli animi degli ascoltatori che si esprimono necessariamente tutta la forza e la bellezza dell’eloquenza”.
La retorica nacque, secondo i Greci antichi, in Sicilia nella metà del V secolo a.C. Corace e il suo allievo Lisa elaborarono un manuale in cui individuarono tre diversi generi: quello giudiziario (afferente ai dibattiti processuali), il simboleutico (riguardante la contesa politica) ed infine l’epidittico (comprendeva la varietà dei discorsi). Rispetto ad ogni genere di retorica individuarono la corretta condotta del soggetto che esercitava e sosteneva le posizioni rivestite nelle rispettive circostanze. L’oratoria ateniese, tra il V e il IV sec. a. C. era protagonista dei tribunali popolari e riguardava azioni legali diversa portata. In particolare, Aristotele classifica come “giudiziari” i discorsi di accusa e di difesa tenuti nell’ambito delle controversie processuali (agónes), relativi ad azioni delittuose.
In una cultura, come quella greca, la cui trasmissione fu affidata per secoli all’oralità, la capacità di parlare in pubblico, di persuadere un uditorio e di far prevalere la propria posizione su quella dell’avversario ebbe un ruolo cruciale.
L’Oratoria forense richiedeva una buona conoscenza della dottrina, degli istituti e degli strumenti giuridici nonché abilità di convincimento, pertanto fu necessario individuare una categoria di professionisti che possedessero tali capacità: i logografi. Essi, dietro compenso, scrivevano orazioni di accusa o difesa per conto di terzi, poiché l’iniziativa di promuovere un’azione legale e la rappresentazione della difesa spettavano ai singoli cittadini. I maggiori oratori ad Atene furono Lisia, Demostene e Isocrate.
Le orazioni giudiziarie vertevano sia su cause di natura privata (tutela dei diritti del singolo) che pubblica (atti lesivi dell’ordinamento statale e giuridico).
In rispetto della procedura processuale, i discorsi giudiziari erano ripartiti in quattro momenti significativi: il proemio (presentazione dell’oggetto della causa); la narrazione (esposizione dei fatti accaduti); l’argomentazione (rappresentazione delle prove ed escussione dei testimoni); la perorazione (parte finale dell’orazione, in cui si cercava il coinvolgimento emotivo della giuria).
Lo sviluppo dell’oratoria in Atene andò di pari passo al consolidamento della democrazia, tuttavia su di essa ebbe influenza anche la dottrina dei sofisti, i primi maestri di retorica. I principali esponenti furono Corace e Tisia. I sofisti, dietro compenso, insegnavano ai giovani le tecniche argomentative necessarie per esprimersi e persuadere il pubblico facendo prevalere le proprie ragioni su quelle dell’avversario, non perché più veritiere, ma poiché meglio argomentate. Il periodo più alto dell’oratoria forense ateniese è identificabile con l’attività di Lisia, il quale, formato dalla sofistica ed esperto su elementi giuridici, fu apprezzato per le sue arti compositive, per la purezza e l’eleganza espressiva. Lisia possedeva la cosiddetta etopéa, la capacità, nei discorsi giudiziari, di rappresentare perfettamente le personalità dei propri clienti fornendone un ritratto credibile capace di attirare l’attenzione e il favor dei giudicanti.
L’oratoria giudiziaria romana, come quella greca, aveva ad oggetto sia i iudicia privata (azioni legali dei singoli individui), che i iudicia publica (cause di interesse collettivo). In entrambe le diatribe processuali si faceva ricorso all’attività difensiva dei patroni, ossia esperti di diritto che per la loro conoscenza della legge e le capacità oratorie, ma soprattutto per la tutela che gli stessi potevano garantire ai clienti grazie allo status famigliare che ricoprivano nella comunità. Nei iudicia privata erano previste due fasi: la prima in cui veniva individuato il danno supposto; nella seconda fase intervenivano, in supporto alle parti in causa, i patroni che rappresentavano, con precisione, gli elementi di fatto e di diritto e si attivavano per persuadere la giuria.
A differenza dei logografi in Grecia, i patroni svolgevano la loro attività “assistenziale” durante tutto il percorso dibattimentale, il quale prevedeva inizialmente tre riunioni dove venivano esposti i fatti e si provvedeva all’attività probatoria; in seguito era prevista una quarta riunione dove si svolgeva il voto della giuria popolare e, a tal riguardo, i patroni esponevano discorsi per la collettività facendo leva sul coinvolgimento emotivo.
Dalla seconda metà del II sec. a. C. gli oratori iniziavano a distinguersi e ad avere successo nell’attività professionale non tanto per la visibilità delle famiglie di provenienza, per il loro status sociale, ma per le competenze giuridiche e le capacità argomentativa.
Il processo penale è da sempre stato considerato luogo di massima espressione dell’arte oratoria e l’avvocato penalista italiano, nei primi anni dell’Ottocento, incentrava la propria professionalità sulla retorica argomentativa. L’obiettivo dell’era napoleonica era quello di preparare il giurista di inizio Ottocento ad una tecnica idonea a servire in modo efficiente le istituzioni e ad acquisire l’arte dell’eloquenza.
A tal fine, nel 1808, venivano aperte la “Scuola di eloquenza pratica legale” da Gian Domenico Romagnosi e la “Accademia estemporanea di eloquenza forense per esercizio della gioventù legale” da Giuseppe Marocco.
L’eloquenza è lo strumento utilizzato dal professionista forense per una applicazione delle leggi a favore delle cause che gli competono, mediante un’accurata capacità di scrivere e parlare. Nell’età Napoleonica si afferma, infatti, la convinzione che il consenso giuridico e dell’opinione pubblica derivi non dalla “mera” veridicità del racconto e della difesa dei fatti, ma debba essere costruito attraverso un lavoro tecnico costituito da conoscenza giuridica e arte retorica.
Nel XIX secolo il processo penale viene vissuto dalla comunità locale come un evento sociale quasi assimilabile ad una rappresentazione teatrale.
Una buona oratoria giudiziaria non è costituita da monologhi, ma di interazione (emotiva) con l’uditorio.
Nel Novecento si individuano i criteri fondamentali di una efficace arringa difensiva, costituita da ricostruzione di fatti, questioni di diritto e conclusioni. L’avvocato deve possedere formalità, scevra da espressioni dialettali, ricchezza del vocabolario, rapidità, semplicità, eleganza e impersonalità.
Un cambio nelle modalità di svolgimento dell’attività forense è stato sancito con l’introduzione del codice di procedura penale del 1988. Oratori di quei tempi erano Bentini, De Marsico e Porzio, maestri di una retorica caratterizzata da nuovi canoni di linguistica e di condotta professionale.
A metà Novecento venivano elaborati, infatti, dei breviari che contenevano esempi di arringhe difensive e regole deontologiche cui i nuovi avvocati penalisti dovevano ispirare la propria attività e tecnica professionale. Avveniva in quegli anni un passaggio da professionisti che nel passato utilizzavano l’arte oratoria quasi come una rappresentazione teatrale, a professionisti che, nello svolgimento della loro professione, utilizzavano argomentazioni celeri, semplici e chiari.
Con l’inserimento in ambito processuale delle prove precostituite, cambia anche il tempo a disposizione dell’avvocato per le proprie tesi argomentative. L’arte oratoria ricopre ampio spazio ne processi celebrati in udienza dibattimentale, mentre i tempi vengo ristretti, per la mole delle cause, dinanzi ai giudici monocratici e ai giudici di pace, dove l’avvocato deve imitarsi ad esporre i dati di fatto e i dettagli di diritto.
Sempre a sottolineare l’importanza dell’arte oratoria nei processi, la Scuola Superiore dell’Avvocatura ha istituito la rivista trimestrale Cultura e diritti per una formazione giuridica ha previsto una rubrica dedicata proprio al tema “Argomentazione e linguaggio”, nel quale vengono pubblicati numerosi interventi aventi ad oggetto il problema della neo-lingua forense.
Nella realtà contemporanea l’arte oratoria è attività concreta e significativa degli avvocati penalisti, i quali utilizzando il sapere giuridico ed una scrupolosa linguistica, elaborano una tesi persuasiva per l’interlocutore.
L’attività argomentativa è svolta mediante espressioni comunicative che raccontano, interpretano, motivano, dimostrano. Il momento cruciale nel procedimento penale è quello dell’arringa. Obiettivo del difensore è quello di fornire all’organo giudicante una versione dei fatti credibile, o meglio, convincente, facendo rilevare solo gli elementi capaci di avvalorare la sua tesi.
L’arte della retorica è qualità necessaria in ambito forense, per un avvocato penalista è fondamentale. Non occorre soltanto conoscere le leggi, gli istituti, gli articoli giuridici, o anche utilizzare i termini giusti, è importante saper comunicare, con giudici, clienti, testimoni. Occorre costruire l’arringa difensiva anche mediante il linguaggio del corpo, il “non verbale”: tono, cadenze, silenzi, espressioni gestuali e facciali.
Possedere la formazione tecnico-giuridica non basta, l’avvocato deve essere anche in grado di comunicare in modo efficace, occorre dunque imparare l’arte dell’eloquenza, per la quale fornirà sicuramente un valido contributo scientifico il presente Volume.

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