ROMA– Sono i piccoli comuni il motore dell’economia produttiva italiana1 . Nelle amministrazioni con meno di 20mila abitanti, infatti, è ubicato il 41 per cento sia delle imprese italiane sia del totale dei lavoratori dipendenti che, in questo caso, non include gli occupati nel pubblico impiego. Altresì in questa classe si “produce” il 39 per cento del valore aggiunto nazionale. Se alziamo la soglia, nei comuni sotto i 100mila abitanti, il Pil prodotto è il 66 per cento del totale, si impiega il 69 per cento degli addetti nelle imprese private e le imprese ubicate sono addirittura il 71 per cento. Tranne che in Lazio e in Liguria, la maggior parte della ricchezza nel Paese viene “generata” in questa classe dei Comuni. Sono questi i numeri più significativi che emergono dall’elaborazione redatta dall’Ufficio studi della CGIA, per conto di ASMEL, l’Associazione per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali. In altre parole, fabbriche, uffici, negozi e botteghe sono concentrate nei comuni a minor dimensione demografica. Assieme alle realtà comunali di media dimensione, inoltre, sono i principali soggetti economico/ istituzionali cui la politica, anche ai fini della “messa a terra” del PNRR, dovrebbe guardare con maggiore attenzione.
“Invece – sostiene Francesco Pinto, segretario generale ASMEL – il metodo PNRR privilegia i grandi apparati comunali e concede ai piccoli e medi Comuni di sperare nella lotteria per l’accesso ai finanziamenti».
A differenza delle grandi aree metropolitane, infatti, i piccoli e medi comuni continuano ad avere poche risorse e tante difficoltà nell’accesso ai tanti Avvisi pubblici loro destinati e nella gestione dei fondi.
Inoltre, la forte concentrazione delle attività produttive nelle realtà territoriali minori impone ai loro Sindaci risposte importanti su temi come la tutela dell’ambiente, la sicurezza stradale, la mobilità, l’adeguatezza delle infrastrutture viarie e la necessità di avere un trasporto pubblico locale efficiente. Sono criticità che richiedono un approccio pianificatorio su larga scala che, spesso, non si può attivare a causa delle poche risorse umane e finanziarie a disposizione.
Degli 825,4 miliardi di euro di valore aggiunto prodotto da tutte le aziende private presenti nel Paese (pari a poco meno della metà del Pil nazionale), 541,7 miliardi sono generati nelle piccole e medie Amministrazioni comunali e 283,6 miliardi nelle grandi.
Se separiamo il valore aggiunto totale prodotto dalle imprese private nelle due branche che lo compongono, industria e servizi, emerge la grandissima vocazione manifatturiera dei Comuni sotto i 20 mila abitanti dove sono insediate il 54 per cento delle imprese industriali (514.069), il 56 per cento degli addetti (3.029.993) e addirittura il 53 per cento del Pil (182,8 miliardi di euro).
Viceversa, come del resto era facilmente prevedibile, il settore dei servizi2 è concentrato in particolar modo nelle grandi realtà urbane: nelle città con più di 100 mila abitanti, infatti, scorgiamo il 32 per cento delle unità locali di questo settore, il 37 per cento degli addetti e il 44 per cento del valore aggiunto. I piccoli Comuni con meno di 20 mila abitanti, tuttavia, svolgono anche nei servizi un ruolo per nulla marginale, rappresentando il 38 per cento delle imprese (1.388.939 unità), il 33 per cento degli addetti (3.846.275 addetti) e il 28 per cento del valore aggiunto (137,5 miliardi di euro).
Se analizziamo la distribuzione delle unità locali delle imprese di industria e dei servizi a livello regionale, solo in Emilia Romagna, Liguria e Lazio l’incidenza percentuale sul totale di quelle ubicate nei comuni con più di 100mila abitanti è superiore a quella relativa alle imprese insediate nelle amministrazioni con meno di 20mila abitanti. Per Liguria e Lazio, in particolar modo, questo risultato è ascrivibile al “peso” demografico che i comuni di Genova e Roma hanno nei confronti delle regioni di appartenenza.
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