A rischio il decreto delocalizzazioni, Draghi pensa a una possibile riscrittura

C’è grossa incertezza intorno al testo inerente la delocalizzazione griffato Orlando e Todde. Le intenzioni dei due ministri sarebbero quelle di porre un limite ai comportamenti “selvaggi” delle imprese che chiudono uno stabilimento in Italia, licenziano e trasferiscono la produzione all’estero

ROMA – C’è grossa incertezza intorno al testo inerente la delocalizzazione, griffato dal ministro del Lavoro Andrea Orlando e dalla viceministra allo Sviluppo economico Alessandra Todde. Le intenzioni di entrambi sarebbero quelle di porre un limite ai comportamenti “selvaggi” delle imprese che chiudono uno stabilimento in Italia, licenziano e trasferiscono la produzione all’estero. Ora la palla passa al premier Draghi che dovrà esaminare il testo e molto probabilmente lo passerà al setaccio per una più plausibile riscrittura.

Slitteranno dunque i termini per l’inserimento del decreto all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, creando non poche tensioni all’interno della maggioranza, alimentate ancor prima con Confindustria. Ma il decreto è già andato incontro a delle importanti revisioni come: multe e black list depennate e la messo in dubbio della previsione iniziale di far pagare dieci volte di più il cosiddetto contributo di licenziamento.

La falsariga

Una logica, quella che accompagna il Decreto che appare molto simile a quella del condono dove l’impresa decide l’atto estremo e lo Sato ne chiede i soldi per la conseguente ricollocazione. Con l’aggiunta dello stop a contributi e ai finanziamenti per ben cinque anni “se l’azienda non presenta un Piano per limitare l’impatto dei licenziamenti con annesso pagamento delle politiche attive”.

La mediazione

L’intenzione di Orlando e Todde sarebbe quella di trovare un punto di mediazione per scavalcare la doppia visione tra chi “vuole legare le imprese a impegni e obblighi perentori e chi pensa che invece un cappio troppo stretto può solo che disincentivare gli investimenti in Italia”. Ma alla fine appare solo come metodo per monetizzare le politiche attive.

L’obiettivo

L’obiettivo dovrebbe essere invece quello di ricostruite le politiche attive con una governance, mediante una ristrutturazione qualitativa e non solo numerica dei centri per l’impiego. La volontà di sottoporre alle imprese i costi per aver lasciato il nostro Paese sembra comunque essere stata già messa da parte, partendo anche dal presupposto che ’impresa che licenzia e lascia l’Italia ha a cuore un piano di ricollocamento e che tirare fuori i soldi per costruire il futuro di un lavoratore che non sarà più il suo.

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